Alla preoccupazione per la situazione sanitaria si somma ogni giorno
di più quella per la situazione economica nel prossimo futuro. Un’angoscia determinata dalla
certezza diffusa che la crisi sarà lunga, pesante e che le ripercussioni –
anche più del problema sanitario – cambieranno a lungo le condizioni di vita di
miliardi di persone di tutti i continenti.
Ma la crisi non è nata oggi, né è nata col coronavirus: essa è un
problema strutturale e ciclico del capitalismo, incapace di perseguire una linea diretta di
sviluppo sociale, capace solo di brevi periodi di benessere, distribuito in
maniera diseguale, a cui seguono lunghi periodi di guerre, distruzioni e
durissime condizioni di vita per gran parte del genere umano.
Da oltre vent’anni, mentre le guerre d’aggressione “umanitarie” si
susseguono in tutto il mondo, la politica europea promette che la crisi nel
giro di pochi mesi verrà superata. Ma essa va avanti inesorabilmente, assieme alla
ristrutturazione in chiave sempre più elitaria ed autoritaria dei sistemi di
governo degli Stati.
Al culmine di questa deriva, nella nostra area geopolitica, abbiamo un’Unione
Europea spacciata per sistema democratico per il solo fatto di avere un
parlamento elettivo che non decide nulla, mentre è realmente governata da
sistemi non elettivi e non democratici (la famosa Trojka, cioè Commissione Europea, Banca
Centrale Europea e Fondo Monetario Internazionale) che
rispondono solo agli interessi del capitalismo che governa tutto, in maniera
autoritaria, con la sua legge disumana.
Se da una parte il
rallentamento della produttività offrirà ad alcuni l’occasione, nei prossimi
anni, per far credere che la fase sia stata superata e che stia arrivando un
nuovo boom, dall’altra è anche vero che quella ripresa altro non sarà che un
ritorno più o meno veloce allo stato attuale, già di per sé critico. Il
crollo delle condizioni economiche di milioni di persone spianerà la strada
agli speculatori, che approfitteranno
della situazione per consolidare la propria posizione e conquistare maggiori
fette di potere, con grandi lobby che cercheranno di privatizzare tutto l’apparato di
tutela sociale, come già accaduto in
altri Stati.
Processi che non si possono ottenere se non con la complicità, ormai
del tutto evidente, di una classe politica asservita alle lobby economico
finanziarie. E’ palese che anche
in una condizione di emergenza sanitaria globale il potere politico attuale
persegue la tutela dei grandi interessi privati a discapito del benessere
pubblico.
Il governo italiano,
mentre nel nord Italia tra marzo e aprile 2020 si registravano già decine di
migliaia di contagi e non si aveva più spazio nei cimiteri per i morti,
paralizzava l’intera società senza toccare gli interessi del grande capitale. Difatti
nelle grandi industrie i lavoratori hanno sempre continuato a lavorare,
costretti a stare vicini e spesso senza adeguati strumenti di protezione.
Sono state adottate misure di contenimento a rigidità alternata, disposizioni
che includono tra i possibili vettori di contagio chi passeggia ad oltre 200
metri da casa, ma che permettono tuttavia a decine di migliaia di operai di
affollare ogni giorno treni e metropolitane, stipati tutti assieme nei vagoni.
Il virus però, come gli stessi decreti vorrebbero spiegare, si propaga proprio
nei luoghi affollati.
Durante la prima fase del contagio in Sardegna la RWM (azienda che
produce bombe a Domusnovas), a differenza delle piccole e medie imprese
costrette a chiudere, continuava tranquillamente la sua produzione,
interrompendola solo il 21 marzo. Pochi giorni dopo però è stata comminata una multa di 800
euro a un uomo che passeggiava col suo cane nella pineta deserta a 5 km da
Narbolia. Insomma appare evidente che, dinanzi al maggiore interesse della
salute pubblica, alle singole persone non riunite in assembramenti viene
applicata una grande rigidità da cui sono esentate le multinazionali, incluse
quelle della guerra, nei cui stabilimenti numerosi operai lavorano insieme in
catena di montaggio.
E che il rispetto per la produzione bellica sia ai primi posti per
una certa politica – nonostante nei
decreti si parli candidamente di “attività essenziali” – lo
dimostra sin da subito la deroga per le produzioni di armi e armamenti, visto che ad esempio anche in piena
epidemia non è stata interrotta la catena di produzione dei caccia F35.
Potremmo continuare a lungo con esempi che vanno ben oltre la sola produzione
bellica e includono la grande finanza così come la grande produzione
industriale, anche non legata al rifornimento di beni di prima necessità,
sostanzialmente esentate dalle misure anti epidemiche per non vedere crollare i
loro profitti. Una scelta di sostegno ad alcuni importanti settori dell’economia
che ha determinato il contagio di numerosi lavoratori e delle loro famiglie, e la morte di un altissimo numero
di persone innocenti a cui è stato di fatto impedito di potersi proteggere dal
virus.
I picchi di diffusione della
malattia suggeriscono una coincidenza tra un alto numero di contagi e zone con
un alto livello di concentrazione della produzione industriale. In realtà
questo non basta a spiegare la dimensione del disastro in alcune zone, perché
ai fattori che facilitano la diffusione si aggiungono le omissioni e le
inadempienze in tema di contrasto al contagio.
La Lombardia è per eccellenza la regione in cui la sanità privata,
potenziata per decenni a scapito di quella pubblica, è stata presentata come la
soluzione a tutti i problemi. Oggi vediamo che questo sistema, se è in grado di
offrire cure all’avanguardia (beninteso in cambio di enormi profitti derivati
da finanziamenti pubblici e dal cittadino), dall’altra si è dimostrato
assolutamente incapace di occuparsi di un problema sanitario di dimensione
sociale.
E che questa sia la
chiave di volta per capire alcune dinamiche che hanno posto la Lombardia nel
triste primato di regione maggiormente flagellata, lo
dimostra il fatto che gli USA, anch’essi altamente industrializzati, anch’essi
con metropoli altamente popolate, anch’essi strenui fautori della sanità
privata, sono attualmente il Paese maggiormente devastato dal virus.
In queste realtà le persone sono numeri, che valgono solo in base a quanto sono
utili per l’economia dominante. Se si tratta di persone benestanti, quando si
ammalano hanno maggiori possibilità di salvezza. Viceversa quando sono povere e
vivono nel disagio, non solo hanno poche possibilità di curarsi, ma quando
muoiono finiscono gettate in una fossa comune. Come negli ospedali è accaduto
che l’emergenza abbia portato a decidere chi doveva vivere e chi doveva morire,
anche nella società si cerca di fare lo stesso.
Il rallentamento dell’economia determinerà un calo delle entrate fiscali per lo
Stato e, di conseguenza, questo determinerà anche calo di fondi da destinare ai
servizi, con ulteriori difficoltà per le fasce più deboli della popolazione,
anche considerando che oggi non è povero solo chi è senza lavoro, ma anche chi
ce l’ha.
In Sardegna il livello di povertà aumenta di giorno in giorno, anche
con maggiore incidenza rispetto alla media italiana. Le statistiche ci dicono
che la disoccupazione, ed in particolare quella giovanile e femminile, è a
livelli altissimi, e che gran parte
della società vive in una condizione di indigenza appena mitigata da sostegni
sociali come il reddito di cittadinanza o il Reis, o grazie alla disponibilità
della casa e della pensione dei propri anziani genitori. Che futuro possiamo
dare ai nostri figli?
Senza dubbio si tenterà di pagare la crisi con altri tagli allo
Stato sociale, così come si continua
a fare da decenni – in Italia cosi come negli altri Paesi a capitalismo
avanzato – con l’azione di pesanti politiche neoliberiste alternativamente ma
ugualmente condotte da governi di centrodestra, centrosinistra o cosiddetti
tecnici.
In numerosi paesi del mondo l’epidemia è già stata la scusa, e più
ancora lo sarà, per spianare la strada a derive sempre meno democratiche,
trasformando le misure sanitarie in misure di controllo totale della vita del
cittadino, sospendendo i diritti
fondamentali dell’uomo ben al di là delle necessità di contenimento della
malattia, gettando le basi per un controllo della società super tecnologico e
onnipresente. A beneficiare di questo controllo totalizzante, già prima del
Covid19 e sempre di più in seguito, è una classe politica che è sempre meno
espressione di scelte democratiche e sempre più figlia di stratagemmi di
consolidamento del potere, nomine dirette non
condivise, sistemi elettorali sempre meno rappresentativi e proporzionali e
sempre più orientati a tutelare i blocchi politici già al potere, con dinamiche
di alternanza interne al solo blocco dominante e pressoché impossibili da
scardinare dall’esterno.
Sarà dunque molto difficile in questo momento, e persistendo le condizioni
garantite da questi sistemi elettorali, pensare a un’inversione di tendenza
determinata da una nuova classe politica che inaugura un nuovo corso. D’altra
parte è anche vero che i disoccupati, i precari, gli operai, i lavoratori delle
piccole e medie imprese non accetteranno di pagare la crisi determinata da
scelte antipopolari.
Oggi il popolo, sebbene attanagliato da una crisi che pare non
finire mai, è costretto non solo a sostenere il prezzo di riforme economiche
che vanno contro i suoi interessi, ma anche a garantire il finanziamento di
sprechi, privilegi, investimenti folli.
Non dimentichiamo le assurde cifre che ci si ostina a spendere per le parate
della forze armate o per le esibizioni delle frecce tricolori, che volano
allegre sulla gente che muore di fame. Non tralasciamo gli oltraggiosi 180mila
euro annui dati come pensione all’ex presidente della Repubblica, e via
discendendo con lo stuolo di centinaia e migliaia di ex presidenti di Camera,
di Senato e Regioni, parlamentari, consiglieri, ma anche generali, ufficiali,
sottufficiali, clero dell'Ordinariato militare equiparato agli ufficiali, tutti
destinatari di sostanziose pensioni d’oro come compensazione per avere in
precedenza ricevuto stipendi d’oro, mentre intere famiglie cercano di campare
con meno di mille euro al mese.
In realtà la disastrosa situazione economica attuale non è stata
determinata dall’epidemia, infatti è bastato appena un mese di interruzione del
lavoro per portare alla fame milioni di persone: evidentemente queste vivevano già sull’orlo del
baratro, sottoposte ad un sistema che fa fuori i pesci piccoli dandoli in pasto
ai pesci grandi.
Pensiamo al negoziante del piccolo market di paese o di quartiere,
che prima garantiva il salario a tre o quattro dipendenti, e ora affetta salame
per uno stipendio da fame nei centri commerciali della Grande Distribuzione
Organizzata, che hanno raso al suolo la nostra economia locale. Questo è l’effetto di un processo
monopolistico di distribuzione dei beni di necessità, che con una concorrenza
sleale cancella migliaia di posti di lavoro in cambio di poche decine di posti
da cassieri e magazzinieri malpagati, e che sostituisce la produzione del
territorio con quella di importazione. La Grande Distribuzione Organizzata
desertifica i territori: che sia lei, e non i territori, a pagare il prezzo
della crisi!
Le banche hanno ricevuto miliardi di euro dalle casse pubbliche per
pagare il loro salvataggio. Nel capitalismo mondiale – checché ne dicano le teorie liberali, non si
sa se più ingenue o disoneste – vige una regola ferrea da sempre: guadagni
privati, costi pubblici. Allora che siano le banche, cosi come i grandi gruppi industriali,
non le casse pubbliche, a pagare il prezzo della crisi! Ed ancora miliardi di euro pubblici
vengono spesi dallo Stato per settori che lo Stato considera intoccabili. Parliamo
delle forze armate, che costano 63 milioni di euro ogni giorno alle casse
pubbliche. Parliamo delle missioni all’estero, guerre d’aggressione spacciate per missioni di
pace che prosciugano centinaia di milioni di euro e si protraggono di anno in
anno e di decennio in decennio.
Parliamo dell’IMU non pagato dalla Chiesa, nonostante il Vaticano,
essendo uno degli Stati più ricchi del mondo, potrebbe permettersi di pagarlo
ben più di un piccolo proprietario puntualmente controllato.
Parliamo degli stipendi e delle pensioni esorbitanti dei politici, ma anche di
quelle che sono un po’ meno sotto i riflettori ma altrettanto esorbitanti, come
quelle dei graduati di tutte le forze armate, che non vengono mai colpiti dai tagli che si abbattono
invece sullo Stato sociale e sui salari dei lavoratori.
Noi crediamo che siano
queste alcune delle principali voci su cui si dovrebbero fare dei tagli
drastici e da cui bisognerebbe attingere per affrontare la crisi. Non
un soldo deve essere preso da chi ha già dato, e fin troppo, ad uno Stato che si è sempre
dimostrato debole con i potenti e violentemente arrogante con i poveri.
Vogliamo massime tutele per il lavoro, con un rilancio dell’occupazione e il
ripristino delle garanzie smantellate negli anni di aggressione selvaggia ai
diritti dei lavoratori. Solo un giusto diritto dopo una vita di sacrifici, ma
pure un’ancora di salvezza e di sopravvivenza davanti alla crisi economica per
larghe fasce della popolazione.
Vogliamo sostegno per i cittadini di fronte alle grandi difficoltà
sociali. Bisogna
garantire anche ai più poveri il diritto alla casa, una sanità e una scuola
pubblica, gratuita e di qualità per tutti. Abbiamo altresì bisogno di portare sotto controllo
pubblico i principali settori che garantiscono i diritti inalienabili della
persona, stabilendo primi fra tutti il controllo dell’acqua, dei trasporti e
dell’energia.
Vogliamo pieno supporto per le piccole e medie imprese, che sono il
vero tessuto economico che distribuisce benessere diffuso nel territorio, che crea vera occupazione, capace
di innescare percorsi virtuosi di potenziamento e sviluppo di un’economia di
qualità, autoctona, sostenibile.
A livello sardo il governo regionale, in un’ottica di tutela delle fasce di popolazione
colpite dalla crisi, dovrebbe predisporre immediate misure di sostegno che non si fermino al contributo una
tantum o all’assistenzialismo. I Sardi vogliono lavorare dignitosamente, beneficiando
del frutto del proprio lavoro. Perciò in questo momento è urgente
che la Regione disponga una sistema di incentivo del cooperativismo, e che in quest’ottica attivi subito
il progetto delle Cooperative di Comunità, già approvato e ancora inapplicato.
Il governo sardo deve tutelare il prodotto sardo nel mondo e difendere il mercato interno
dall’invasione di prodotti tarocchi che imitano quelli sardi, con apposite
misure di sostegno che permettano di valorizzare realmente il lavoro di
agricoltori, allevatori e artigiani, pilastri fondamentali della nostra
economia.
Il governo sardo dovrebbe tutelare il turismo compiendo una scelta
epocale, tutelando il diritto
alla mobilità sia per il cittadino sardo sia per il turista: istituire
una compagnia pubblica regionale aerea e marittima, che permetta di aggirare
qualsiasi operazione monopolistica e di garantire sempre e comunque un servizio fondamentale
per il cittadino, anche quando le turbolenze del mercato isolano la Sardegna.
La classe politica regionale anziché cercare in ogni modo di aprire le porte
della speculazione edilizia sulle nostre coste, potrebbe dare presto uno sbocco
alla crisi dell’edilizia di cui si parla spesso: bisognerebbe attuare
finalmente un serio programma di rilancio dell’edilizia popolare, che
rappresenterebbe non solo una boccata d’ossigeno per il settore edile, ma anche
la certezza di un tetto alle migliaia di famiglie che da anni attendono una
casa.
La Regione dovrebbe farsi immediatamente portatrice di una seria
proposta nei confronti dello Stato italiano per il controllo e la riscossione
diretta dei tributi. In quest’ottica
bisognerebbe mettere in atto una serrata trattativa per ampliare le competenze
fiscali e permettere alla Sardegna di beneficiare anche della restante parte di
tributi attualmente versati allo Stato italiano. L’attribuzione alla Sardegna
dei 10/10 delle tasse pagate in loco (e non solo i 7/10 o 9/10, come stabilito
dall’art. 8 del nostro Statuto) permetterebbe una maggiore entrata di fondi da
poter investire per il superamento della crisi e successivo rilancio economico.
In quest’ottica vediamo come necessaria anche una sospensione del pareggio di
bilancio che consenta di operare anche in disavanzo e sostenere immediatamente
i comuni, su cui si abbattono e sempre più si abbatteranno gli effetti diretti
della crisi.
Oggi la Sardegna paga da sé tutte le sue spese sanitarie: le tasse
dei suoi cittadini quindi pagano la sanità sarda ma anche la quota di tasse che
sostiene quella italiana. Sarebbe opportuno
rivendicare di fronte allo Stato il finanziamento completo delle spese
straordinarie derivate dall’emergenza sanitaria per il Coronavirus, una spesa
eccezionale a cui la comunità sarda non può fare fronte da sola.
Noi crediamo che lo
spirito che deve animare qualsiasi misura posta in essere per affrontare la
crisi debba andare in direzione di un maggiore autogoverno, che permetta e
garantisca l’efficacia di misure determinate dal governo sardo. Ma crediamo
anche che le misure da mettere in campo debbano necessariamente rispettare
l’ottica di difesa degli interessi popolari e l’ampliamento delle tutele dello
Stato sociale, riequilibrando le diseguaglianze con una politica di attacco ai
privilegi e agli sprechi (numerosissimi e non
solo legati allo stipendio dei politici), con tassazioni e prelievi fiscali
dalle entità più abbienti, per affrontare una crisi economica determinata non
dalle scelte del popolo ma dalle classi dominanti.
Chiamiamo i lavoratori, i disoccupati, gli studenti, le piccole e
medie imprese alla mobilitazione generale e alla lotta per difendere
strenuamente i nostri diritti, affinchè il prezzo di questa crisi non venga
fatto pagare alle classi popolari.
Lottiamo per il diritto di vivere del nostro lavoro, sulla nostra terra,
decidendo liberamente
del nostro futuro!
PANE TERRA LIBERTADE
Liberu – Lìberos Rispetados Uguales
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