In trincea come non lo era mai
stato. Lui che ha trascorso persino un mese in carcere per la vicenda Is Arenas
e ha sempre vissuto sul filo, sin da ragazzo. Lui che quasi le cerca, le
situazioni più ruvide e burrascose, come se gli servissero per sopravvivere. Stavolta, invece, ha paura, e non lo manda a dire. Il destino lo ha portato
proprio a Brescia, una delle città più colpite dal coronavirus, dove i morti
non fanno più notizia ormai, la gente convive col terrore e il diavolo danza
indisturbato davanti all'uscio di casa.
Ogni giorno, ogni ora, ogni dannato
minuto dalla fine di febbraio. Da allora (sino a una settimana fa) Massimo Cellino era barricato, solo soletto, nella sede del club lombardo di cui è il presidente da quasi tre anni. Pensando e ripensando al
futuro, a come gestire la situazione quando tutto questo sarà finito. Ma
faticava (e fatica) persino a metabolizzare le ventiquattr'ore successive,
figurarsi il campionato.
Il
calcio, ripete ormai da tempo, è l'ultimo dei problemi in Italia. Fosse per
lui, la chiuderebbe qui. Minaccia addirittura di non schierare la squadra se la Serie A dovesse ripartire tra maggio e giugno. E prova a consolarsi con i cinquant'anni dello scudetto del Cagliari, il suo Cagliari dal 1992 al 2014. «Ma non chiedetemi di festeggiare. In questo momento possiamo solo piangere i nostri cari e pregare».
Presidente
Cellino, innanzitutto come sta?
«Io bene, grazie a Dio. Ho raggiunto
la mia famiglia a Cagliari otto giorni fa e da allora sono in quarantena. Mia
moglie e i miei figli non sono riusciti a rientrare a Londra e a quel punto ho
preferito stare con loro. L'altro giorno ho fatto un tiramisù coi fiocchi, ora ho
appena preparato dei rigatoni alla carbonara. Provo a occupare il tempo
cucinando. Ma non riesco a scacciare via il tarlo che ho in testa. A Brescia ho
lasciato l'inferno, mi creda. Benedetta isola, qui non si ha la minima
percezione di ciò che sta succedendo da quelle parti. Un massacro».
Ha avuto
paura?
«Ho avuto molta paura. Tre miei
dipendenti sono in ospedale, la segretaria c'è stata
addirittura un mese. È qualcosa di indescrivibile, più che paura
è terrore. Mi misuravo la temperatura in continuazione e non avevo il
coraggio di togliere il termometro per controllarlo. Una volta ha
suonato, ho iniziato a sudare e tremare, con questi termometri
moderni poi non ho grande dimestichezza. Ho tirato il fiato per un
minuto: segnava 37,2. Sono crollato a terra dal sollievo. È tutto così
assurdo. Come quel mese...».
Quel mese
in prigione?
«Già. Quella è una ferita socchiusa
che porto dentro, uno dei motivi, tra l'altro, per cui torno sempre meno in
Sardegna. E questo maledetto coronavirus l'ha riaperta. Sono due situazioni
diverse ma allo stesso tempo simili. E come
allora, c'è solo un modo per far passare le giornate
più velocemente: star svegli la notte e andare a dormire la mattina alle 8. Niente televisione, così ti risparmi anche il fumo che ci stanno vendendo
i nostri rappresentanti».
La
situazione che più l'ha sconvolta?
«I morti
nei container, non sanno più dove metterli perché è un virus che rimane anche
quando il cuore smette di battere.
Impressionante. Come la reazione dei bresciani. Stanno soffrendo in silenzio e affrontando questa emergenza con dignità. Meritano rispetto».
Ha
preferito comunque fare una donazione a un ospedale cagliaritano.
«A dir il vero, inizialmente l'idea
era rivolta proprio a Brescia. Ho chiamato un amico medico a
Cagliari per aiutarmi ad acquistare quindici ventilatori e mi ha
risposto: “non è così semplice, tra l'altro in Sardegna non ne
abbiamo tantissimi”. Sono rimasto allibito. Solo a Brescia ce n'erano
duecentocinquanta, duemila circa nell'intera Lombardia. Mi son detto: “se
succede qualcosa nell'Isola muoiono tutti come zanzare”. Così ho
deciso di darli all'ospedale Santissima Trinità. I primi dieci sono
già stati consegnati, gli altri arriveranno entro maggio,
spero».
Il calcio
ai tempi del coronavirus?
«Sapete quanto vivo io di calcio, è
la mia passione, il mio lavoro, la mia ossessione. Il calcio è tutto per me. Ma
anche solo ipotizzare in questo momento una ripartenza del campionato tra uno o
due mesi mi sembra davvero irrispettoso e assurdo».
Lei è tra
i presidenti che chiuderebbero qui la stagione: perché?
«Per me il campionato è finito.
Punto. Non si può giocare facendo finta che non stia succedendo nulla, ci vuole
rispetto. Ma anche tecnicamente sarebbe impossibile ripartire. Non è mai
successo che i calciatori siano stati per così tanto tempo fermi. Come si può
solo pensare di giocare tredici partite in un mese per poi magari ricominciare
subito la prossima stagione? Si strappano al primo giro di campo. Che senso
ha?».
In questo
modo il suo Brescia retrocederebbe?
«Il Brescia è ultimo in classifica
meritatamente. Ho fatto degli errori immensi, non da Cellino, con un giocatore
e con un allenatore. E chi sbaglia, paga. Se dovessi retrocedere, lo farei a
testa alta. Perché non tutti hanno il bilancio come il mio e si nascondono
dietro il coronavirus».
Davvero
sarebbe pronto a ritirare la squadra, se si dovesse ripartire?
«Se ce lo dovessero proporre oggi,
non mi presento. Non mi umilia giocare in Serie B ma farlo sulle tombe dei
nostri cari».
La
soluzione?
«Una sola: campionati nulli e
ripartire dallo 0-0. Se poi Vigorito dice che il Benevento in Serie B ha venti
punti di vantaggio, bene, benissimo, diamogliene altrettanti di bonus quando
inizierà la nuova stagione. E così pure al Monza in C e agli altri. Non vedo
altra via d'uscita. Stiamo parlando di pandemia, causa di forza maggiore. Tra l'altro,
il 30 giugno scadono tutti i contratti dei calciatori e i bilanci delle
società. Come si può giocare a luglio?».
Perché ce
l'ha così tanto con Lotito e la Lazio?
«Ma no, non ce l'ho con Claudio,
quando mai. Io scherzo, mi piace stuzzicarlo. Ma lui la prende sul serio, e
questo mi dispiace. Ha fatto un grande campionato. Certo, è stato un po'
fortunato con gli arbitri, se ripenso anche alla gara con noi. Deve essere
soddisfatto. Ma si metta a disposizione del sistema calcio, non faccia
l'egoista».
La
polemica con l'associazione allenatori per Grosso e Corini?
«Basata sul nulla perché io non ho
chiamato né Grosso né tanto meno Corini. Semplicemente, bisognava riprogrammare
il sistema di allenamenti individuali e ho convocato i quindici preparatori,
tra i due staff, che il Brescia aveva sotto contratto. Chi altro avrei dovuto
chiamare, del resto?».
Come sta
affrontando la crisi il Brescia?
«Come tutte le altre società.
Allenamenti a casa con videochat, fisioterapia per chi ne ha bisogno e così
via».
Nessun
taglio agli stipendi per i suoi giocatori?
«Non ho avuto ancora la possibilità
di confrontarmi con loro, lo faremo presto. Ma è inutile prendersi in giro: se
il campionato dovesse concludersi è giusto che li paghi, altrimenti no».
Gli altri
dipendenti?
«Hanno ricevuto tutti regolarmente
la busta paga a marzo e così sarà anche questo mese. Sin che posso, preferisco
evitare la cassa integrazione».
Tra
l'altro ora ha tre allenatori a libro paga.
«Ripeto, se mi fossi comportato da
Cellino dando retta al mio istinto
non saremmo a questo punto».
Perché ha
richiamato Lopez dopo l'esonero di sei anni fa?
«Gli esoneri fanno parte del nostro
lavoro. Era troppo legato ai calciatori quell'anno e c'era una situazione di
squadra che andava gestita diversamente. Diego resta un figlio per me. E a
furia di prendere schiaffi è cresciuto e maturato tantissimo. Avevo provato a portarlo
a Brescia già a novembre ma non se l'è sentita di lasciare il Peñarol anche se
mancavano poche partite alla fine».
C'è qualcun
altro dei tempi al Cagliari che rivorrebbe al suo fianco?
«Daniele Conti e Andrea Cossu. Ma
sono figli della Sardegna ed è giusto che stiano al Cagliari. Diventeranno due
grandi dirigenti».
Domenica
ha festeggiato i cinquant'anni dello Scudetto?
«Con quello che sta succedendo
festeggiare mi sembra davvero fuori luogo in questo momento. Ho avuto più che
altro un pensiero per i miei amici Andrea Arrica e Mariano Delogu. Loro sì che
avrebbero trovato le parole e le soluzioni giuste per affrontare tutto questo».
Fabiano Gaggini
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Federico
Marini
skype:
federico1970ca
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