mercoledì 29 aprile 2020

Una società fondata sullo scontro. La politica non unisce, soprattutto non da fiducia. Di Lucia Chessa.



Mi disorienta più di sempre questa Italia che ribolle. Offesa dalla pandemia e lacerata da uno scontro interno che si fa sempre più aspro. Questo è l’inizio della prima grande crisi del terzo millennio e neanche noi, che la vediamo montare sotto i nostri occhi, sappiamo quando e come e con quali esiti finirà. Un’Italia incastrata tra la crisi sanitaria e la crisi economica, con l’urgenza di salvare il lavoro di milioni di persone e la necessità di evitare lo sfilacciamento sociale che incombe dietro i fallimenti, la perdita di lavoro, la povertà diffusa più di prima.

Non è vero che ha retto il nostro sistema sanitario. Gli ospedali e le residenze sanitarie sono diventati focolai di contagio, troppi medici e operatori sanitari sono morti attendendo inutilmente tamponi e protezioni adeguate, tutta l’assistenza per altre patologie ha collassato. Tutto ciò che non è urgente è stato rinviato ma chi lo stabilisce che non è urgente se non ti vede un medico? Leggo che diminuiscono i ricoveri per infarto ma che aumentano i morti per infarto e faccio due più due. Si muore anche così, la gente un ospedale non ci va.


Ora la fase due accentua lo scontro. Interviene stanchezza, monta scontento e ribellione con gli immancabili sciacalli politici che soffiano sul fuoco, senza aggiungere nulla alla soluzione dei problemi anzi, agitando ancora le acque e intorbidendole di lamentele senza proposte, bene attenti a cavalcare scontenti legittimi e a fare e disfare, emettendo provvedimenti senza filo logico. Solinas è un esempio di questa pratica.


Una settimana fa chiudeva anche le spiagge e, per marcare la differenza con il governo centrale, non riapriva librerie e negozi di abbigliamento per bambini, ma oggi lamenta che il governo non ha aperto abbastanza. C’è una linea comune nell'azione del centro destra. Una linea che ha una regia e ciò che la guida, solo marginalmente è la protezione sanitaria delle persone.


Il presidente degli ordini dei medici italiani esprime una valutazione positiva sulla linea di prudenza che si profila nella fase 2. Altri insistono sulle aperture, sulla ripresa delle scuola, sul significato letterale e allegorico della parola “congiunto”, sulla necessità della corsetta dei sedentari e nel frattempo si approfondiscono solchi e si fanno sempre più larghi: tra dipendenti e autonomi, tra scientisti e complottisti, tra presunti inconsapevoli ubbidienti e presunti abistos che non si fanno fregare, tra disperati che intravvedono il fallimento economico e quelli che stanno seduti al caldo del loro reddito sicuro, tra giovani e vecchi, anche tra città e campagna.

E piano piano scompare e si annulla la fiducia, già per altro abbondantemente compromessa in partenza, tra lo stato e il cittadino. Lo stato che ti controlla, ti segrega in casa, ti rende destinatario di disposizioni di cui non cogli il senso ma allo stesso tempo non ti cura, non ti fa il tampone, non ti isola se sei malato ma ti lascia a casa a contagiare la tua famiglia.

Sarebbe necessaria, già da subito, una ricostruzione economica, sociale, culturale, di coesione, di equità, di giustizia, di solidarietà. Una ricostruzione della stessa forza e intensità di quella che ci fu nel secondo dopo guerra. Ma poi ti guardi attorno e vedi che non ci sono quegli uomini nati dalla devastazione di una guerra e dagli orrori dei totalitarismi comunisti, nazisti e fascisti. Ci sono questi. Nati da clientele, fedeltà lecchinante ai capibranco, posizionamenti di spartizione, occupazione di istituzioni, gente di basso profilo portatori di pensieri deboli rovesciati su masse di cittadini altrettanto deboli. Non so voi, io ho zero certezze.


Lucia Chessa

Gli scienziati si schierano con Conte la seconda ondata sarebbe terribile



La risalita dei casi in Germania e il rinvio dell'apertura delle scuole in Francia sono la prova che il rischio «di contagi di ritorno è molto concreto». Ecco perché, dopo le critiche per la timidezza della Fase 2, Giuseppe Conte può rivendicare la linea dura, anche sulla base dei dati dell'Iss sul rischio di collasso delle terapie intensive in caso di ripartenze generalizzate.

Il premier non indietreggia «Non abbiamo ondeggiato rispetto ad altri Paesi», spiega il premier. E aggiunge che riportare al lavoro 4,5 milioni di persone dal 4 maggio è già un rischio: un «rischio calcolato» e con un meccanismo d'emergenza pronto a scattare, con «chiusure mirate» per le aree o anche Regioni dove tornassero a salire i «focolai di contagio». «È ragionevole invece accelerare dove la curva è più bassa», propone il Pd.

«Dopo il 18 maggio conteranno le differenze territoriali», spiega Francesco Boccia. Già dall'11 maggio potrebbero arrivare le prime novità: si valuta la possibilità di far svolgere messe all'aperto, venendo incontro alle richieste della Cei. Ma anche il Papa invita a «prudenza e obbedienza perché la pandemia non torni». È l'unica linea possibile per ora, dice Conte nell'incontrare governatori e sindaci della Liguria, della Lombardia, dove va in visita a Lodi e Cremona, e dell'Emilia Romagna, nella città di Piacenza duramente colpita dal virus.

Renzi all'attacco Da Roma lo contestano non solo Lega e Fdi (che manifesta davanti a Palazzo Chigi) ma anche Matteo Renzi, che accusa il premier di aver «violato la Costituzione con un dpcm, limitando le libertà personali». L'accusa a Conte è avere avocato a sé pieni poteri: «La libertà viene prima del governo. Quando non succede, sono tempi bui per tutti», dice il leader di Iv, che pure dice di non voler rompere con la maggioranza.

Ma le peggiori notizie per il governo arrivano dall'agenzia di rating Fitch, che al contrario di Standard&Poors declassa l'Italia a BBB- (un gradino sopra i titoli spazzatura). Il ministro dell'Economia Roberto Gualtieri replica che «i fondamentali dell'economia e della finanza pubblica dell'Italia sono solidi» e la valutazione dell'agenzia non tiene conto dello scudo Bce, ma Fitch ricorda impietosamente che la manovra antivirus causerà «un deterioramento del bilancio»: il debito pubblico salirà al 156% e il deficit sarà vicino al 10%.

L'allarme dell'Iss Ma per quanto la sforbiciata al nostro rating sia allarmante, non deve spronare a una ripartenza disordinata o affrettata delle attività produttive. Nel peggiore degli scenari previsti da Istituto superiore di sanità e Comitato tecnico-scientifico, con una riapertura delle attività quasi generalizzata l'indice di contagio R0 tornerebbe sopra il valore 2 e le terapie intensive raggiungerebbero la saturazione entro l'8 giugno.

Il nodo scuole. Per questo, per l'avvio della Fase 2, la riapertura delle scuole è esclusa: «Innescherebbe una nuova e rapida crescita dell'epidemia di Covid-19». Al contrario, si legge nel documento, «nella maggior parte degli scenari di riapertura dei soli settori professionali, in presenza di scuole chiuse, anche qualora la trasmissibilità superi la soglia epidemica, il numero atteso di terapie intensive al picco risulterebbe comunque inferiore alla attuale disponibilità di posti letto a livello nazionale, circa 9mila».

Le stime che emergono dal modello richiedono comunque un «approccio di massima cautela per verificare sul campo il reale impatto». Per questo, tra i suggerimenti della relazione tecnica, anche quello di «considerare magari una riapertura parziale delle attività lavorative, ad esempio al 50%». E l'app Immuni? Dal Governo dicono che arriverà a maggio anche se ancora non è chiaro quando

I numeri Istat Nel frattempo salgono i decessi (382 in più) ma il numero dei malati è diminuito di altri 608; i ricoveri in terapia intensiva sono scesi di altri 93 e ora sono 1.863; i pazienti negli altri reparti calano, per la prima volta dal 22 marzo, sotto i ventimila; il rapporto tra contagiati totali e tamponi fatti è il più basso finora registrato, al 3,6%. Ma dei 2.091 nuovi contagiati, 869 sono in Lombardia, il 41,5% del totale. Ma è l'Istat a delineare, probabilmente, i veri numeri. «Da un esame su 5.069 Comuni» risulta che «il totale dei decessi tra l'1 marzo e il 4 aprile è stato superiore del 41% rispetto allo stesso periodo del 2019 (62.667, quando erano 44.583 nel 2019)».


Articolo tratto da l’Unione Sarda del 29.04.2020

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Federico Marini
skype: federico1970ca


martedì 28 aprile 2020

Vogliamo essere liberi di aprirci al mondo. Di Liberu – Lìberos Rispetados Uguales



Dalle misure per la ripartenza del governo italiano dipenderà ogni decisione del Presidente Solinas circa la riapertura dei porti e degli aeroporti sardi. Siamo consapevoli di quanto questa decisione possa essere tragica se pensiamo che a fronte di una probabile riesplosione dell’epidemia corrispondano dati certi sul tracollo delle assunzioni sia nel settore turistico che in quello dei trasporti, 76% per il primo e 64% per il secondo (Unione Sarda del 23 aprile 2019 – pag. 19).

Indipendentemente dalla decisione che sarà intrapresa a subirne le conseguenze sarà sempre il popolo sardo, residente in Sardegna, al quale non verrà garantito il proprio diritto alla mobilità con una situazione molto più grave rispetto al passato. Infatti anche un’eventuale riapertura comporterà necessariamente l’adozione di misure di distanziamento sociale che, ad esempio all’interno dei velivoli, significa ridurne la capienza al 60% dei passeggeri con la conseguente indisponibilità dei vettori low cost ad effettuare le tratte da e per la Sardegna, in assenza di misure di sostegno da parte dello Stato.

Dobbiamo ribadire che il problema dei trasporti non nasce oggi ma in tanti anni di governi che hanno ritenuto più opportuno foraggiare le casse di vettori privati piuttosto che tutelare il diritto alla mobilità del popolo sardo. Già prima dell’emergenza coronavirus l’Unione Europea, al fine di non sanzionare la Sardegna, aveva deciso di bloccare i bandi di gara proposti dall’Italia ritenuti lesivi della concorrenza ed atti a favorire Alitalia.

Ad oggi la continuità territoriale in Sardegna è stata prorogata per tutto il 2020, nonostante i ripetuti richiami da parte della Commissione europea dei trasporti affinché proponessero forme di continuità territoriale rispettose di una differenziazione delle tariffe tra residenti e non residenti.


I maggiori esperti sostengono che la Sardegna avrebbe potuto migliorare il proprio sistema di trasporti applicando il modello spagnolo, nel quale si garantisce un rimborso addirittura del 75% del biglietto del passeggero residente. Tale rimborso da un lato costituisce un aiuto sociale al popolo residente, tutelandone anche il diritto alla mobilità, e quindi non un mero foraggiamento indiscriminato ad una compagnia privata, dell’altro garantisce a tutti i vettori di accedere al mercato.

In costanza dell’emergenza sanitaria un tale modello, applicato temporaneamente, garantirebbe ai Sardi residenti di viaggiare non solo verso Roma e Milano, uniche tratte garantite da Alitalia, ma anche verso altre mete ed a prezzi contenuti. La situazione è ancora più grave poiché oggi qualsiasi disfunzione o inefficienza di Alitalia avrebbe una ricaduta gravissima sui Sardi, non avendo gli stessi altra alternativa per spostarsi da e per la Sardegna.

Arriviamo al paradosso se si pensa che l’applicazione del modello spagnolo comporterebbe una misura economica pari a circa 150 milioni di euro. Cifra infinitesimale rispetto a quanto erogato con il decreto “Cura Italia” dello scorso 17 marzo, con il quale si sono ingrossate le casse per la nazionalizzazione della compagnia di bandiera italiana con una manovra pari a mezzo miliardo di euro (art. 79 Decreto Legge n. 18/2020). Ricordiamo che Alitalia è una compagnia in fallimento e la cui vendita era prevista nei primi giorni di marzo ma rimandata per via dell’esplosione del coronavirus.

Noi crediamo che lo spirito che deve animare qualsiasi misura posta in essere per affrontare la crisi debba andare in direzione di un maggiore autogoverno, che permetta e garantisca l’efficacia di misure determinate dal governo sardo. Ma crediamo anche che le misure da mettere in campo debbano necessariamente rispettare l’ottica della difesa degli interessi popolari, tra cui il diritto fondamentale alla mobilità per tutti i cittadini.

Liberu – Lìberos Rispetados Uguales



Dialogo con Renato Soru. Sardegna ce la farai se non ti volti indietro. di MARCELLO FOIS



Renato Soru, da Sanluri, ha rappresentato una figura di imprenditore autoctono, di grande successo, inedita per la Sardegna. Storicamente infatti nel nostro territorio la grande imprenditoria è sempre stata materiale di importazione. Tuttora, tranne Tiscali e pochi altri, le grandi aziende, pur storicizzate, in Sardegna sono di provenienza continentale. Proprio l'exploit di Tiscali dei primi anni duemila ha ingenerato un ciclo virtuoso che ha incoraggiato più di un'impresa locale a pensare alla grande, allargarsi, e misurarsi col mercato globale senza complessi di inferiorità.

Lei si riconosce questo primato almeno da un punto di vista psicologico?''
Con la nascita di Tiscali e i risultati subito raggiunti abbiamo vissuto momenti esaltanti. Per noi che ci lavoravamo, ma anche per tanti che in quell'avventura si erano riconosciuti. Con Tiscali la Sardegna ha compreso che Internet poteva rappresentare finalmente il superamento dell'isolamento di cui aveva sofferto fino ad allora: si era aperta una speranza nuova. Tutto poi era successo in un baleno: avvio dell'attività nel '98, espansione in Italia, la quotazione in Borsa nel '99, l'espansione a livello internazionale, la vasta notorietà. Per qualche anno siamo stati al centro dell'attenzione, siamo stati un centro di innovazione, protagonisti della rivoluzione di Internet in Italia e in Europa. In seguito non tutto è andato come avremmo voluto, ma credo siamo stati un riferimento per l'economia sarda, abbiamo ispirato tante aziende e soprattutto incoraggiato molti giovani a mettersi in gioco, a sperare, ad osare di più".

In questa stagione di cattività forzata si ha molto tempo a disposizione. Lei è un personaggio che si è contraddistinto proprio per la sua mobilità, come ha risolto l'impossibilità di muoversi, viaggiare, coordinare?
"Ho imparato, credo come tanti altri, una mobilità nuova, per certi versi persino aumentata. Oggi ci incontriamo a distanza con uno dei tanti programmi di video-conferenza, sono diventati familiari piattaforme come zoom, meet o le videochiamate di gruppo su whatsapp. Ci stiamo rendendo conto che in molte occasioni lavorare in questo modo può essere persino più efficiente. Abbiamo scoperto che tanti viaggi di lavoro non sono proprio indispensabili anzi possono essere più utilmente sostituiti. Persino il mondo della scuola, pur tra molte difficoltà, sta rapidamente sperimentano didattiche nuove e possibilità che non saranno messe da parte con la fine dell'emergenza. Penso che a partire da questa esperienza rivaluteremo il valore stesso del viaggio, evitando spostamenti compulsivi, dispendiosi e inutili".

La letteratura su di Lei è assolutamente sterminata, intendo le migliaia di pagine che la riguardano nella stampa nazionale e internazionale, in cui si spazia dall'attività di imprenditore alla scelta di occuparsi di politica attiva. In tutto questo materiale non c'è mai una riga di compromesso: o è un genio o è un fallimento. Si è mai chiesto perché mai quando si parla di Lei sembra impossibile l'uso del compromesso?
''Non so, forse perché ho fatto alcune cose, anche importanti, cavalcando tecnologie ed innovazione partendo da un luogo inaspettato, suscitando attenzione e fin troppe aspettative, estremamente alte. A tratti si parlava di me con delle iperboli, come il Bill Gates italiano. Forse tutto ciò che non è stato all'altezza di quelle aspettative è stato considerato un fallimento. In realtà "Fallimento", "fallito", sono parole che sono state usate come pallottole contro di me in politica, a partire da Silvio Berlusconi. Io certamente non considero un fallimento aver fatto nascere un'impresa che, partendo da zero, in pochi anni ha superato il miliardo di euro di fatturato e cento milioni di margine lordo all'anno. Un'impresa che ha gemmato molte altre imprese anche di
successo, e che da quando è nata ha consegnato puntualmente oltre mezzo milione di buste paga, prevalentemente in Sardegna. Ecco, quest'ultimo, soprattutto, è il numero che mi rassicura sul lavoro svolto. Sono anche orgoglioso della mia esperienza politica e in particolare dell'esperienza da Presidente della Regione. Abbiamo inseguito un sogno di cambiamento e di riscatto in cui ancora molti credono. Ho espresso una visione netta e chiara e ho agito di conseguenza, senza troppi compromessi. In tanti hanno visto una speranza, altri una minaccia. Forse per questo non possono esserci mezze misure".

Entro a gamba tesa in una domanda che ho sempre voluto farLe: ma è Lei che ha lasciato la politica o è la politica che ha lasciato Lei?''
Non è stata una separazione indolore. Da una parte, dopo tante polemiche e lunghe e ingiuste vicende processuali, avevo desiderio di tornare alle mie cose e alla mia famiglia. Dall'altra, avevo necessità di tornare al mio lavoro, al rilancio di Tiscali. Ho anche voluto allontanarmi da una politica che non sentivo più mia, che non era più quella per la quale avevo deciso di impegnarmi. So che questo è stato vissuto con sollievo da molti, anche all'interno del mio stesso partito. Diciamo che nessuno ha fatto nulla per trattenermi".

La sua ipotesi di Sardegna come griffe, fuori dalle secche folkloristiche, che si rappresentasse come ponte tra l'arcaico e il contemporaneo, chiamare Tiscali un'azienda significherà pur qualcosa, ha formalizzato un paradigma. Oggi connotarsi in questo rapporto è diventato abbastanza comune, non voglio fare nomi ma molte aziende nate dopo Tiscali hanno rispettato questa grammatica. Com'è che nonostante tutto si cerca sempre di essere Soru?'

'Non so se sia iniziato con Tiscali, ma in effetti ora è diventata quasi
un'ossessione, l'utilizzo dei nomi che abbiano un'assonanza col sardo: tutte le iniziative sembra debbano necessariamente rifugiarsi in un'identità facilmente riconoscibile e del passato. Mi pare che se ne stia abusando e si stia tornando al folklore. Tiscali la Sardegna se la portava nel cuore, il nome era una dedica intima non riconoscibile. Poteva essere giapponese o di qualunque altra geografia, era sconosciuto ai più. Nella fantasia di Sergio Atzeni, Tiscali è il rifugio, la grotta in cui gli antichi Sardi in fuga si fermarono per nascondersi, in silenzio, per sfuggire ai primi invasori fenici. Per noi invece Tiscali era il luogo immaginario di un possibile riscatto: tramite la parola, le nuove tecnologie di comunicazione".

Lei ha governato la Sardegna per quasi un'intera Legislatura, a suo tempo impostò la crisi sui disaccordi in merito al Piano Paesaggistico Regionale. Ritenuto troppo draconiano da alcuni, soprattutto costruttori, criticato dentro e fuori la sua maggioranza, sostenuto da una importante consenso trasversale. Lei è stato considerato da personaggi come Silvio Berlusconi, Marta Marzotto, Flavio Briatore, come un Edmond Dantés che, dopo essersi con grande intelligenza imprenditoriale arricchito, si è voluto togliere qualche sassolino dalle scarpe. Ci spiega perché ha scelto proprio il paesaggio come cardine imprescindibile?
''La tutela del paesaggio agli inizi degli anni Duemila è stata la molla che mi ha fatto accettare di lasciare il mio lavoro e impegnarmi in prima persona in politica. Erano gli anni del dogma dell'edilizia, del consumo delle coste visto come unica possibilità di sviluppo dell'economia della nostra regione. Un insensato e precipitoso riempire le coste sarde di seconde case che già allora venivano utilizzate per pochissimi mesi all'anno. Un modello chiaramente sbagliato. Tutto ciò a discapito della grande bellezza della Sardegna, della percezione dei suoi spazi vuoti, del silenzio, del buio, del rapporto intenso con la natura. Ritenevo che ci fosse il pericolo di compromettere definitivamente questi valori, oggi più che mai importanti. Valori che non dovevano essere necessariamente musealizzati, ma che potevano essere alla base di uno
sviluppo turistico diverso. Oggi con quello che stiamo vivendo dovrebbe essere chiara a tutti l'esigenza di ripensare il rapporto tra l'uomo e l'ambiente, l'uomo e i suoi bisogni, la necessità di tutelare la fragilità del creato".

Che errori sente di aver fatto in tutta coscienza prima e durante la sua esperienza di amministratore? Oggi avrebbe sciolto Progetto Sardegna? Avrebbe tentato il salvataggio dell'Unità? Avrebbe spinto l'acceleratore su Cultura e Ambiente?''
La vita di ciascuno di noi è costellata di errori, senza i quali tuttavia non si progredisce. Costellata di errori e di progetti che sono andati diversamente da quanto avevamo sperato. Io ho sperato molto nella nascita di un partito che mettesse insieme le grandi culture politiche dell'Italia repubblicana e potesse accompagnare il nostro Paese verso una nuova stagione di crescita diffusa, di opportunità, di superamento dei ritardi di sviluppo della nostra isola e del nostro mezzogiorno. Ho creduto molto nel progetto del Pd pensando che potesse nascere un nuovo modo di fare politica. Non ho mai creduto nei partiti personali.

Per quanto riguarda L'Unità, non mi pento. Ho cercato di salvare un grande patrimonio culturale e politico e di portarlo nel tempo di oggi. Sarebbe stato necessario un taglio radicale col passato e un'immediata trasformazione digitale. Per molti motivi non è stato possibile. Non mi pento di aver messo al centro da Presidente della Regione temi allora apparentemente secondari quali cultura, sapere, qualità ambientale. Ero convinto allora e oggi, se possibile, ancora di più. Oggi più che mai c'è bisogno di una politica che metta al centro la cultura e la qualità ambientale. Che poi, a ben vedere, significa mettere al centro l'essere umano e le sue esigenze fondamentali: alimentare la propria intelligenza, mettere al sicuro la propria casa".

La Pandemia in corso ci ha rivelato che molte di quelle che noi ritenevamo priorità non sono tali. Ci ha raccontato la storia di una natura a cui basta pochissimo per rigenerarsi in questi due mesi sono riapparse le stelle sul cielo di Pechino, l'Himalaya è visibile dai balconi delle case delle città tibetane, la Pianura Padana è libera dallo smog, i delfini nuotano nelle acque del porto di Cagliari. In questa stanzialità obbligatoria ha scoperto qualcosa di sé che non sapeva?''
Ho riscoperto l'affetto della famiglia, il valore della mitezza, la possibilità di invecchiare serenamente".

Nella sua visione specifica, e anche in rapporto alle tante cose che ha dovuto imparare, quale sarà la Sardegna che verrà? E quale sarà la prossima pelle di Renato Soru?"
Questi mesi ci hanno aiutato a riflettere e a provare ad immaginare il futuro. Io sono molto ottimista: le crisi, pur nelle sofferenze del momento, sono un'occasione per ripartire con slancio e con modelli nuovi. Credo che la Sardegna possa aver capito la fragilità dell'ambiente, riscoperto il valore delle competenze, del sapere scientifico, dell'impegno (pensiamo alla gratitudine diffusa verso medici e infermieri) e che possiamo pensare ad un modo nuovo di fare le cose.

Spero che smetteremo di rappresentarci al passato, guardando indietro anziché dedicare ogni sforzo a conquistare il tempo di oggi e il futuro. Come è stato già detto, l'amore per il nostro passato non è custodire la cenere ma alimentare il fuoco. Quello che oggi serve è quanto possiamo già avere in abbondanza, e abbiamo maggiormente trascurato: più che mai competenze, sapere, rispetto per l'ambiente sono prerequisiti per la vita stessa, ma sono anche i principali valori economici del nostro tempo, sui quali disegnare il nostro sviluppo futuro. Continuo a sperare in una Sardegna fuori dal
lutto, allegra, gioiosa, consapevole della propria forza, responsabile
e autonoma".

Marcello Fois

Articolo tratto da “La Nuova Sardegna” del 28.04.2020


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Federico Marini
skype: federico1970ca



lunedì 27 aprile 2020

"Sa Die de sa Sardigna," una giornata per i giovani sardi e per una nazione. Di Francesco Casula



Pro amentare sa dispidida de sos Piemontesos est nàschida ”Sa Die, giornata del popolo sardo” – ma deo prefèrgio a li nàrrere “Festa natzionale de sos Sardos – cun sa lege n.44 de su 14 Cabudanni de su 1993. Cun issa sa Regione Autònoma de sa Sardigna at chertu istituire una die de su pòpulu sardu, de tzelebrare su 28 de Abrile de cada annu, in ammentu – fia narende- de sa rebellìa populare de su 28 de Abrile de su 1794, est a nàrrere de sos “Vespri sardi” chi nch’ant giutu a s’espulsione dae Casteddu e dae s’Isula de sos Piemontesos e de àteros istràngios fideles a sa corte sabauda, inclùdidu su Vitzeré Balbiano chi nemos podiat bìdere.

Su problema chi oe tenimus in dae in antis, a livellu mescamente culturale, no est tantu su de torrare a pònnere in discussione sa data o, peus, su balore matessi de una “Festa natzionale sarda”, ma de non nche la torrare a unu ritu ebìa, a una vacàntzia iscolàstica ebia o a un’eventu petzi folclòricu e de festa. Su problema est su de la cambiare in un’ocasione de istùdiu – mescamente in sas iscolas – de s’istòria e de sa cultura sarda, de cunfrontu e de discussione collettiva e populare, pro cumprèndere su chi semus istados, su chi semus e cherimus èssere; pro difèndere e isvilupare s’identidade nostra e sa cussèntzia nostra de pòpulu e de natzione; pro gherrare pro una Comunidade moderna e soverana, chi siat bona a pònnere in campu s’orgògliu e su protagonismu de sos Sardos, detzisos, in fines, a otènnere unu riscatu, o siat unu tempus benidore de ditzosidade e de bonistare, lassende si in palas sa rassignatzione, sas lamentas, sos prantos e sos cumplessos de inferioridade e aende s’ànimu de “nche bogare” sos “Piemontesos noos” o romanos o milanesos chi siant, non prus pagu barrosos, prepotentes isfrutadores e “tirannos” de cussos dispididos dae Casteddu su 28 de Abrile de su 1794.

“Fu un momento esaltante – at iscritu Giovanni Lilliu – fu un’azione, poi bloccata dalla reazione “realista”, tesa a procurare un salto di qualità storica. Fu il tentativo di ottenere il passaggio da una Sardegna asservita al feudalesimo ad una Sardegna libera, fondando nell’autonomia, nel riscatto della coscienza e dell’identità di popolo una nuova patria sarda, una nazione protagonista”.

Semper e cando, lassende a un’ala totu custu e s’eventu particulare, su chi contat oe est su balore simbòlicu de autocussèntzia istòrica e de fortza unificante. Perunu torròngiu in palas nostàlgicu o risentidu cara a su tempus coladu, duncas: ma su tempus coladu sepultadu, cuadu, rimòvidu, si tratat, in antis de totu, de nche lu tirare dae suta de terra e de lu connòschere, a manera chi diventet fatu nou chi intèrrogat s’esperièntzia de su tempus atuale, pro pònnere fronte a su tempus presente in s’atualidade drammàtica sua, pro definire un’orizonte de sensu, pro nos situare e pro abitare, abertos a s’alenu suo, su mundu, gherrende contra a su tempus de s’ismèntigu.

Unu tempus coladu chi – pèrdidu petzi in aparièntzia – tocat de l’agatare ca est durada, eredidade, cussèntzia. In issu, infatis, si inferchit su balore de s’’Identidade, no istàticu e tancadu, non memòria cristallizada ma patrimòniu chi benit dae largu e fundamentu in ue fàghere falare aportos noos de culturas, de bidas individuales e sotziales chi determinant semper identidades noas.

Su messàgiu de Sa die est diretu mescamente a sos giòvanos e s’ocasione istòrico-culturale est destinada in antis de totu a sos istudentes, pro chi otèngiant sa cunsapevolesa de apartènnere a un’istòria e a una tzivilidade e de ereditare unu patrimòniu culturale, linguìsticu, artìsticu e musicale, ricu de siendas de elaborare e cunfrontare cun esperièntzias e propostas de unu mundu prus mannu e cumplessu. In ue, moende dae raighinas seguras e frunidos de alas fortes, potzant bolare in artu: sos giòvanos e non solu

Di Francesco Casula
Saggista, storico della letteratura sarda
 autore del libro, tra gli altri, de “Carlo Felice e i tiranni sabaudi”

*L’articolo è tratto dal sito “sardegna24.it”