lunedì 11 maggio 2020

Vicenda Bonafede–Di Matteo. Cosa non accade in un Paese “normale.” Di Lucia Chessa.



Lo so che l’Italia ha una bella epidemia da governare, con l’enormità dei problemi sanitari, economici e sociali che ne conseguono, ma questo non toglie, secondo me, che la vicenda Bonafede-Di Matteo sia stata archiviata troppo in fretta. Anzi, direi, schifosamente in fretta. Inaccettabile questo sereno voltare pagina e passare ad altro di fronte alle questioni gravissime sollevate dalle dichiarazioni di Di Matteo, un magistrato che, sul campo, con relativi oneri e onori, è diventato simbolo della lotta alla mafia, di quelli che l’Italia usa santificare solo dopo morti, dopo che saltano in aria sotto casa loro o lungo un’autostrada verso l’aeroporto.

In quel momento diventano eroi nazionali, celebrati e ricordati inutilmente in tardivi rituali di facciata che io trovo sempre più fastidiosi e petulanti. Riepilogando per i distratti: qualche tempo fa il ministro della giustizia Bonafede telefona al pubblico ministero Di Matteo e gli offre l’incarico di capo della Dap, un settore del ministero della giustizia che si occupa di ordine e sicurezza all'interno delle carceri, comprese le misure di sicurezza durante la detenzione e le misure alternative alla stessa.

Un ruolo non di poco in un paese in cui è notorio che i boss continuano a comandare cosche e territori anche dalle carceri. Di Matteo chiede 24 ore per pensarci, parlare con la famiglia, decidere e il giorno dopo parte per Roma per comunicare al ministro di aver accattato. Ma nel frattempo il ministro Bonafede ha cambiato idea. Sono passate solo 12 ore dalla proposta telefonica e per togliersi dall’imbarazzo di giustificare la giravolta il ministro offre a Di Matteo un altro incarico, di quelli dove non si conta quasi niente in termini di possibilità di lavoro autonomo, una proposta persino ridicola per un magistrato di punta e con le sue prospettive di carriera.

Nel frattempo, mafiosi di primo piano erano stati intercettati mentre esprimevano tutta la loro preoccupazione per un’ eventuale nomina a Di Matteo e minacciavano rivolte nelle carceri se questo fosse avvenuto certificando con quel “Se arriva lui per noi è finta” , chi lavora contro la criminalità organizzata e chi fa finta. Ecco, a me sembra che in un paese normale, una storia come questa avrebbe provocato direttamente le dimissioni di un ministro.

In un paese normale, non di straordinaria cultura della legalità e dell’onestà, un ministro coinvolto in un' enormità come questa avrebbe sentito l’obbligo di mettere sul tavolo le sue dimissioni tanto più se appartiene ad un “cultura” che in mille modi ha sorvolato sulle garanzie che sono diritto della persona su cui grava un sospetto. In un paese di media decenza, alla domanda del perché quella giravolta in 12 ore, un ministro, in parlamento, mai avrebbe potuto rispondere semplicemente “La mia azione è, è sempre stata e sempre sarà di lotta alla mafia”.

A me non interessa l’assoluzione di Bonafede pronunciata dalle pagine del Fatto Quotidiano, se vogliamo non mi interessa neanche di Di Matteo perché non mi piacciono le divinizzazioni di chi fa il suo dovere, a me interessa il fatto che non voglio vivere nell’acqua torbida, che ho bisogno di vederci chiarissimo su cose di questo tipo, che conosco il danno enorme, economico, sociale e culturale, che fa al mio paese la criminalità organizzata la quale continua a macinare miliardi fuori dai conti ufficiali e continua ad inquinare pesantemente la democrazia dello stato nel quale io vivo. E per ciò non mi sta bene che la risposta del ministro Bonafede non contenga uno straccio di spiegazione nel merito. Non mi sta bene che venga data anche con quella certa arietta arrogante, perché io so’io e voi nun siete un c…..

Di Lucia Chessa

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