Lo so che l’Italia ha
una bella epidemia da governare, con l’enormità dei problemi sanitari,
economici e sociali che ne conseguono, ma questo non toglie, secondo me, che la
vicenda Bonafede-Di Matteo sia stata archiviata troppo in fretta. Anzi, direi, schifosamente in
fretta. Inaccettabile questo sereno voltare pagina e passare ad altro di fronte
alle questioni gravissime sollevate dalle dichiarazioni di Di
Matteo, un magistrato che, sul campo, con relativi oneri e onori, è diventato
simbolo della lotta alla mafia, di quelli che l’Italia usa santificare solo dopo morti, dopo che saltano
in aria sotto casa loro o lungo un’autostrada verso l’aeroporto.
In quel momento
diventano eroi nazionali, celebrati e ricordati inutilmente in tardivi rituali
di facciata che io trovo sempre più fastidiosi e petulanti. Riepilogando per i
distratti: qualche tempo fa il ministro della giustizia Bonafede telefona al
pubblico ministero Di Matteo e gli offre l’incarico di capo della
Dap, un settore del
ministero della giustizia che si occupa di ordine e sicurezza all'interno delle
carceri, comprese le misure di sicurezza durante la detenzione e le misure
alternative alla stessa.
Un ruolo non di poco in un paese in cui è notorio che i boss
continuano a comandare cosche e territori anche dalle carceri. Di Matteo chiede 24 ore per
pensarci, parlare con la famiglia, decidere e il giorno dopo parte per Roma per
comunicare al ministro di aver accattato. Ma nel frattempo il
ministro Bonafede ha cambiato idea. Sono passate solo 12 ore dalla proposta telefonica e per
togliersi dall’imbarazzo di giustificare la giravolta il ministro offre a Di
Matteo un altro incarico, di quelli dove non si conta quasi niente in termini
di possibilità di lavoro autonomo, una proposta persino ridicola per un magistrato
di punta e con le sue prospettive di carriera.
Nel frattempo, mafiosi di primo piano erano stati intercettati
mentre esprimevano tutta la loro preoccupazione per un’ eventuale nomina a Di
Matteo e minacciavano rivolte
nelle carceri se questo fosse avvenuto certificando con quel “Se arriva lui per
noi è finta” , chi lavora contro la criminalità organizzata e chi fa finta. Ecco,
a me sembra che in un paese normale, una storia come questa avrebbe provocato
direttamente le dimissioni di un ministro.
In un paese normale,
non di straordinaria cultura della legalità e dell’onestà, un ministro
coinvolto in un' enormità come questa avrebbe sentito l’obbligo di mettere sul
tavolo le sue dimissioni tanto più se appartiene ad un “cultura” che in mille
modi ha sorvolato sulle garanzie che sono diritto della persona su cui grava un
sospetto. In un paese di media decenza, alla domanda del perché quella
giravolta in 12 ore, un ministro, in parlamento, mai avrebbe potuto rispondere
semplicemente “La mia azione è, è sempre stata e sempre sarà di lotta alla
mafia”.
A me non interessa
l’assoluzione di Bonafede pronunciata dalle pagine del Fatto Quotidiano, se
vogliamo non mi interessa neanche di Di Matteo perché non mi piacciono le
divinizzazioni di chi fa il suo dovere, a me interessa il fatto che non
voglio vivere nell’acqua torbida, che ho bisogno di vederci chiarissimo su cose di questo tipo, che
conosco il danno enorme, economico, sociale e culturale, che fa al mio paese la
criminalità organizzata la quale continua a
macinare miliardi fuori dai conti ufficiali e continua ad inquinare
pesantemente la democrazia dello stato nel quale io vivo. E per ciò non mi sta
bene che la risposta del ministro Bonafede non contenga uno straccio di
spiegazione nel merito. Non mi sta bene che venga data anche con quella certa
arietta arrogante, perché io so’io e voi nun siete un c…..
Di Lucia Chessa
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