martedì 5 maggio 2020

All'attacco di Sa die e sa Sardigna. Di Francesco Casula.



Nostalgici del tricolore e dell’Inno italico, da sempre nemici della lingua sarda e dei nostri simboli identitari, – e dunque della nostra “Festa Nazionale”, l’intellettualità compradora e gli storici filo sabaudi, con argomenti risibili muovono un attacco scomposto a SA DIEsarebbe una Festa “inventata”, senza fondamenta storiche. Guarda caso in sintonia con gli storici filo sabaudi più reazionari e cortigianeschi: alla Giuseppe Manno e Vitorio Angius, tanto per intenderci, che avevano ridotto il 28 aprile a una semplice congiura.
Rispondo con argomentazioni che non sono mie ma del più grande storico sardo dell’età sabauda; di un osservatore diretto e coevo all’Evento del 28 aprile 1794 e a Giovanni Lilliu, il nostro più grande archeologo.

1. Girolamo Sotgiu, (che fra l’altro è stato anche senatore e dirigente del PCI, alieno da simpatie nazionalitarie e indipendentiste) polemizza garbatamente ma decisamente proprio con l’interpretazione data da storici filo sabaudi, come il Manno o l’Angius al 28 aprile, considerato alla stregua di una congiura. “Simile interpretazione offusca – scrive Sotgiu – le componenti politiche e sociali e, bisogna aggiungere senza temere di usare questa parola «nazionali». Insistere sulla congiura – cito sempre lo storico sardo – potrebbe alimentare l’opinione sbagliata che l’insurrezione sia stato il risultato di un intrigo ordito da un gruppo di ambiziosi, i quali stimolati dagli errori del governo e dalle sollecitazioni che venivano dalla Francia, cercò di trascinare il popolo su un terreno che non era suo naturale,di fedeltà al re e alle istituzioni”.

A parere di Sotgiu questo modo di concepire una vicenda complessa e ricca di suggestioni, non consente di cogliere il reale sviluppo dello scontro sociale e politico né di comprendere la carica rivoluzionaria che animava larghi strati della popolazione di Cagliari e dell’Isola nel momento in cui insorge contro coloro che avevano dominato da oltre 70 anni.

2. Non fu quindi congiura o improvviso ribellismo: ad annotarlo è anche Tommaso Napoli, padre scolopio, vivace e popolaresco scrittore ma anche attento e attendibile testimone, che visse quelli avvenimenti in prima persona. Secondo il Napoli “l’avversione della «Nazione Sarda» – la chiama proprio così – contro i Piemontesi, cominciò da più di mezzo secolo, allorché cominciarono a riservare a sé tutti gli impieghi lucrosi, a violare i privilegi antichissimi concessi ai Sardi dai re d’Aragona, a promuovere alle migliori mitre soggetti di loro nazione lasciando ai nazionali solo i vescovadi di Ales, Bosa e Castelsardo, ossia Ampurias. L’arroganza e lo sprezzo – continua – con cui i Piemontesi trattavano i Sardi chiamandoli pezzenti, lordi, vigliacchi e altri simili irritanti epiteti e soprattutto l’usuale intercalare di Sardi molenti, vale a dire asinacci inaspriva giornalmente gli animi e a poco a poco li alienava da questa nazione”.

3. “Fu un momento esaltante – ha scritto Giovanni Lilliu – fu un’azione, poi bloccata dalla reazione «realista», tesa a procurare un salto di qualità storica. Fu il tentativo di ottenere il passaggio da una Sardegna asservita al feudalesimo ad una Sardegna libera, fondando nell’autonomia, nel riscatto della coscienza e dell’identità di popolo una nuova patria sarda, una nazione protagonista”. Quanto sostiene Lilliu è proprio il significato simbolico dell’evento: i Sardi dopo secoli di rassegnazione, di abitudine a curvare la schiena, di acquiescenza, di obbedienza, di asservimento e di inerzia, per troppo tempo usi a piegare il capo, subendo ogni genere di soprusi, umiliazioni, sfruttamento e sberleffi, con un moto di orgoglio nazionale e un colpo di reni, di dignità e di fierezza, si ribellano e alzano il capo, raddrizzano la schiena e dicono: basta! In nome dell’autonomia e dunque, per “essi meris in domu nostra”.

E cacciano Piemontesi (con Nizzardi e Savoiardi), non per motivi etnici, ma perché rappresentano l’arroganza, la prepotenza e il potere. Sono infatti militari, funzionari, impiegati. Cagliari all’alba dell’800 contava 20.000 abitanti, la burocrazia e il potere piemontese 514 esponenti: più di uno per ogni 40 cagliaritani! E a partecipare, direttamente e attivamente a quell’Evento, occupando Castello, dopo aver demolito le Porte, non furono quattro borghesi in cerca di privilegi, ma l’intero popolo casteddaiu: ben 2.000 persone, il 10% dell’intera Cagliari: alla faccia della “rivoluzione aristocratica” di cui parlano gli storici filo sabaudi!


Di Francesco Casula
Saggista, storico della letteratura sarda
 autore del libro, tra gli altri, de “Carlo Felice e i tiranni sabaudi”

*L’articolo è tratto dal sito “sardegnaeventi24.it”



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