Dani
Morgan, una ricercatrice boliviana, che sta facendo il dottorato a Cagliari sul
tema dell’Indipendentismo sardo, mi ha intervistato. Ecco, di seguito le sue
domande con le relative mie risposte
1.Perchè
professor Francesco Casula, essere indipendentista?
Risposta.
L’ipotesi
indipendentista, fino a qualche decennio fa demonizzata e criminalizzata, oggi
è entrata prepotentemente nel dibattito politico e nelle più alte sedi
istituzionali, Consiglio regionale compreso. E certo si può convenire e
dissentire. Una cosa però occorre affermare con nettezza: il diritto alla Autodeterminazione dei popoli – e dunque alla
Indipendenza e persino alla secessione e separazione – è garantito dal Diritto
e da tutte le Convenzioni internazionali. Con buona pace della stessa
Costituzione italiana che prevede la repubblica “una e indivisibile”. E anche
con buona pace dell’ordinamento giuridico italiano liberticida secondo cui la
“secessione” è addirittura un reato (art. 241, Attentati contro la integrità,
l’indipendenza o l’unita’ dello Stato) da punire con la reclusione non inferiore
a dodici anni. Del resto, il diritto
alla “secessione” è stato praticato negli ultimi decenni – per limitarci solo
al Vecchio Continente – da decine di popoli europei, dando vita a nuovi
stati con la disgregazione dell’URSS e della Iugoslavia; con la “separazione”
della Slovacchia dalla repubblica Ceca ecc.
Il diritto all’autodeterminazione e
dunque all’indipendenza del popolo sardo si fonda sul suo essere “nazione”;
ovvero sulla sua storia, diversa e dissonante rispetto alla coeva storia
italiana. Ed anche europea. Storia che incardina la sua specifica identità
culturale e linguistica che non può essere sciolta e dispersa – come fino ad
oggi è successo – nel calderone della “italianità”. La Sardegna è entrata
nell’orbita italiana nel 1720 , quando per un “baratto di guerra”, l’Isola
passa dalla Spagna al Piemonte. Ritrovandosi una provincia di uno staterello
ottuso e famelico, specie dopo la rinuncia all’Autonomia stamentaria nel 1847. Oggi
è arrivato il momento storico di riprenderci la nostra indipendenza nazionale
persa.
Perché?
Risposta.
Perché anche, per non
dire soprattutto, dopo la cosiddetta Unità d’Italia, la nostra Isola viene
considerata, trattata e utilizzata dallo Stato Italiano come una colonia
d’oltremare,
una colonia interna, in cui alloccare industrie nere e inquinanti (segnatamente
quelle petrolchimiche) e stazione di servizio per basi e servitù militari. L’onere militare che grava sulla Sardegna è
enorme: a ribadirlo recentemente è stato lo stesso Presidente della Regione
sarda Francesco Pigliaru secondo cui la Sardegna “contribuisce per oltre il 60%
del totale nazionale, in termini di presenza militare e gravami, con una
popolazione pari al 2%”.
I numeri parlano chiaro: nell’Isola sono
oltre 35.000 gli ettari di territorio sotto vincolo di servitù militare. In
occasione delle esercitazioni viene interdetto alla navigazione, alla pesca e
alla sosta, uno specchio di mare di oltre 20.000 chilometri quadrati, una
superficie quasi pari all’estensione dell’intera Sardegna. Sull’isola ci sono
poligoni missilistici (Perdasdefogu), per esercitazioni a fuoco (Capo Teulada),
poligoni per esercitazioni aeree (Capo Frasca), aeroporti militari
(Decimomannu) e depositi di carburanti (nel cuore di Cagliari) alimentati da
una condotta che attraversa la città, oltre a numerose caserme e sedi di
comandi militari (di Esercito, Aeronautica e Marina).
Si tratta di strutture e
infrastrutture al servizio delle forze armate italiane o della Nato. Il poligono del Salto
di Quirra-Perdasdefogu (nella Sardegna orientale) di 12.700 ettari e il
poligono di Teulada di 7.200 ettari sono i primi due poligoni italiani per
estensione, mentre il poligono Nato di Capo Frasca (costa occidentale) ne
occupa oltre 1.400.
Insomma un’Isola militarizzata. Con enormi porzioni del suo territorio sottratte
all’uso civile. Alla coltivazione. Inquinati delle esercitazioni militari con
l’utilizzo dell’uranio impoverito, causa di morti per tumore e di
malformazioni, per gli umani e gli animali.
Ma la Sardegna non è solo una colonia
interna dell’Italia ma anche una “nazione oppressa”, “proibita”, “non
riconosciuta” dallo Stato Italiano, emarginata dalla storia, insieme a tutte le
altre minoranze etniche del mondo. In Europa al pari dei Baschi, Catalani,
Bretoni, Occitani, Irlandesi ecc. Contro cui è ancora in atto un
pericolosissimo processo di “genocidio” soprattutto culturale ma anche politico
e sociale. Si tratta di “minoranze” che – ha scritto Antonio Simon Mossa, il
grande teorico Algherese dell’Indipendentismo sardo moderno – “l’imperiale
geometria delle capitali europee vorrebbe ammutolire”.
La Sardegna ha infatti una precisa
identità etno-nazionale: per la sua storia; la sua lingua millenaria (per
secoli, durante i regni Giudicali, lingua ufficiale e “cancelleresca”), nata
secoli e secoli prima dell’Italiano; le sue tradizioni e la sua civiltà.
1. Come
definisce l’Autonomia? In che modo è diversa da altri concetti come
Federalismo, e Indipendenza?
Risposta
1. Autonomia. La visione autonomistica
dello Stato, è ancora tutta dentro l’ottica dello Stato unitario e centralista
– così come in buona sostanza è ancora disegnato dalla Costituzione
repubblicana, – che al massimo può dislocare territorialmente spezzoni di
potere nella “periferia” o, più semplicemente può prevedere il decentramento
amministrativo e concedere deleghe parziali alla Regione, che comunque in
questo modo continua ad esercitare una funzione di “scarico”, continua ad
essere utilizzata come un terminale di politiche sostanzialmente decise e
gestite dal potere centrale; che vede il rapporto Stato-Sardegna in termini
asimettrici, di pura e semplice dipendenza, che prefigura da un lato
l’accettazione di uno Stato coinvolgente e ancora totalizzante – nonostante
qualche timido tentativo di “dimagrimento” – dall’altro la concessione di uno
spazio di gestione amministrativa e politica del tutto ininfluente. Insomma, uno scambio ineguale, che pone la
Regione in uno stato di marcata inferiorità.
2. Federalismo. Scrive Emilio Lussu
in un saggio del 1933, pubblicato nel n. 6 di «Giustizia e Libertà»:
”Frequentemente accade di parlare con uno che riteniamo federalista perché si
professa autonomista e scopriamo invece, che è unitario con tendenze al
decentramento”. E precisa: ”Ora la
differenza essenziale fra decentramento e federalismo consiste nel fatto che
per il primo la sovranità è unica ed è posta negli organi centrali dello Stato
ed è delegata quando è esercitata dalla periferia; per l’altro è invece divisa
fra Stato federale e Stati particolari e ognuno la esercita di pieno diritto”.
Quando Lussu parla di sovranità “divisa” fra Stato federale e Stati particolari
– o meglio federati, aggiungo io – di “frazionamento della sovranità”, pensa
quindi alla rottura e alla disarticolazione dello stato unitario “nazionale”
che deve dar luogo a una forma nuova di Stato di Stati, in cui “per Stati non
si intendono più gli Stati nazionali degradati da Enti sovrani a parti di uno
stato più grande, ma parte o territori dello stato grande elevati al rango di
stati membri”: l’intera frase virgolettata è tratta da «Federalismo” di
Norberto Bobbio, “Introduzione a Silvio Trentin».
In questa visione federalista il potere
sovrano originario e non derivato spetta a più Enti, a più Stati e perciò
scompare la sovranità di un unico centro, di un unico potere e soggetto
singolare per far capo a più soggetti e poteri plurali. In questa visione
la Regione cessa di essere la rappresentanza in sede regionale e periferica
dell’Amministrazione statale per diventare l’Ente esponenziale della Comunità
sarda.
3. Indipendenza. Per Sardegna sovrana e indipendente intendo
il suo diritto e la sua possibilità e capacità di realizzare l’Autogoverno,
l’autodecisione, l’autogestione economica e sociale delle proprie risorse e
del territorio, il diritto a usare e valorizzare
la propria lingua e cultura, a
gestire la scuola, i trasporti, il credito, le finanze e l’ordine pubblico,
la possibilità di controllare i grandi mezzi di comunicazione di massa e
dell’informazione, di fronte alla quale oggi la Regione è totalmente disarmata
e niente può fare perché essi rispondano a criteri di uso democratico e
socialmente utile. Il potere infine, nei settori fondamentali quali la difesa e
i rapporti internazionali, di decidere in piena sovranità e autonomia.
Porre in questi termini la questione
della Nazione sarda, significa a mio parere, pensare alla creazione di un nuovo
Stato, separato dallo Stato italiano, in cui storicamente è stato
incorporato. Separazione che non significa isolamento e chiusura in se stesso,
e neppure che, in prospettiva, possa rifiutare superiori livelli, anche
istituzionali, di integrazione e di
interdipendenza, necessari oggi per affrontare i problemi socio-economici, a
dimensione continentale e mondiale, connessi:
⦁ alla diffusione delle
nuove tecnologie e alla globalizzazione dell’economia e dei mercati;
⦁ al crescente grado di
interdipendenza e di integrazione raggiunto dall’economia dei singoli paesi e
delle singole aree e regioni;
⦁ al carattere europeo e
internazionale assunto dai flussi e dallo scambio di materie prime, di prodotti
manufatti, di tecnologie e di capitali;
⦁ all’importanza
soverchiante che in tali condizioni acquistano le economie su scala e le
imprese che non producono solo per il mercato locale ma per mercati più ampi e
lontani.
3. Quando, secondo lei, è nata la questione sarda? Perché è nata?
Risposta
La paternità dell’espressione “Questione
sarda” si deve a Gian Battista Tuveri. Intellettuale, politico e scrittore
sardo repubblicano, federalista democratico e progressista. La sua
notorietà ebbe inizio ai primi del 1848, in seguito agli avvenimenti
succedutisi alla fusione con il Piemonte, con l’abolizione degli antichi
istituti autonomi del Regnum Sardiniae e con la concessione dello Statuto
Albertino: il Tuveri fu tra coloro che considerarono quelle decisioni – e prima
ancora la legge “delle chiudende” e l’abolizione dei diritti feudali – gravi
errori che avrebbero aggravato le condizioni economiche e sociali della
Sardegna, provocando la rovina del mondo agro-pastorale. Di qui la critica implacabile contro la politica
accentratrice e colonialista del Piemonte, di cui la Sardegna “era diventata
una fattoria, misera e affamata di un governo senza cuore e senza cervello”.
Con questa espressione si vuole reclamare l’attenzione della politica statale
sulle difficoltà dell’Isola, promuovendo il riscatto della Sardegna e del
popolo sardo contro uno stato centralista e oppressivo. Che tale sarà
soprattutto dopo l’Unità d’Italia. Questa infatti si risolverà sostanzialmente
nella “piemontesizzazione” della Penisola e fu realizzata dal Regno del
Piemonte, dalla Casa Savoia, dai suoi Ministri – da Cavour in primis – dal suo
esercito in combutta con gli interessi degli industriali del Nord e degli
agrari del Sud, (il blocco storico gramsciano ), sostenuti dagli inglesi
(che con la Massoneria finanzieranno la cosiddetta “Impresa dei Mille di
Garibaldi” e la conquista del sud.
Una Unità realizzata contro gli
interessi del Meridione e delle Isole e a favore del Nord; contro gli
interessi del popolo, segnatamente del popolo-contadino del Sud; contro i paesi
e a vantaggio delle città, contro l’agricoltura e a favore dell’industria. C’è di più: si realizzerà un’unità
biecamente centralista e accentrata, tutta giocata contro gli interessi delle
periferie e delle mille città che storicamente avevano fatto la storia e la
civiltà italiana. A dispetto del pensiero della gran parte degli
intellettuali italiani che durante il “Risorgimento” e dopo furono federalisti
e non unitaristi: come appunto Tuveri. La
politica del nuovo stato unitario, centralista e statalista produrrà in
Sardegna la devastazione dell’economia, soprattutto dopo la rottura dei
Trattati doganali con la Francia nel 1887.
4.Quali sono i
principali problemi economici e politici che riguardano la Sardegna?
Risposta
A livello economico: la Sardegna è
caratterizzata dalla “dipendenza” e dallo “scambio ineguale”: importa prodotti
(finiti), ad alto valore aggiunto, ed esporta materie prime e prodotti
(semilavorati) a basso valore aggiunto: in questo scambio “ineguale” si
impoverisce sempre di più, arricchendo, di contro il Nord o comunque i Paesi
dove le sue risorse si dirigono. Questo
meccanismo ha operato soprattutto nel periodo della cosiddetta
industrializzazione petrolchimica. Con la crisi e la fine della
industrializzazione si è chiuso un ciclo più che quarantennale, fatto di
promesse ma anche di illusioni programmatorie e petrolchimiche, che ha lasciato
in Sardegna, un cimitero di ruderi industriali ma soprattutto disoccupazione,
malessere, inquinamento, spopolamento e nuova emigrazione: questa volta di
qualità, non come negli anni ’60, dequalificata e generica.
Ad abbandonare la
Sardegna sono infatti viepiù giovani laureati: risorse preziosissime che
potrebbero, qui in Sardegna, mettere a disposizione le loro professionalità e
competenze per la ricerca e l’innovazione e che invece sono costretti a
emigrare.
Lo spopolamento è certamente uno dei problemi più gravi e acuti che pur già in
atto, rischia di diventare drammatico nel prossimo futuro: a causa della crisi,
specie occupazionale, dei giovani in particolare. Ma anche perché lo Stato
progressivamente sta liquidando tutti i servizi sociali (dalle Scuole alle
Poste, agli Ospedali, ecc.).
Con lo spopolamento – che afferisce
soprattutto alla Sardegna “interna”, l’Isola rischia di ridursi a una
ciambella: con uno smisurato centro abbandonato, spopolato e desertificato:
senza più uno stelo d’erba. Con le comunità di paese, spogliate di tutto, in morienza.
Di contro, con le coste sovrappopolate e ancor più inquinate e devastate dal
cemento e dal traffico. Con i sardi ridotti a lavapiatti e camerieri. Con i
giovani senza avvenire e senza progetti. Senza più un orizzonte né un destino
comune. Senza sapere dove andare né chi siamo. Girando in un tondo senza un
centro: come pecore matte.
Una Sardegna ancor più
colonizzata e dipendente. Una Sardegna degli speculatori, dei predoni e degli
avventurieri economici e finanziari di mezzo mondo, di ogni risma e zenia. Buona solo per ricchi
e annoiati vacanzieri, da dilettare e divertire con qualche ballo sardo e
bimborimbò da parte di qualche “riserva indiana”, peraltro in via di
sparizione.
Si ridurrebbe a un territorio anonimo:
senza storia e senza radici, senza cultura, e senza lingua. Disincarnata e
sradicata. Ancor più globalizzata e omologata. Senza identità. Senza
popolo. Senza più alcun codice genetico e dunque organismi geneticamente
modificati (OGM). Ovvero con individui apolidi. Cloroformizzati e conformisti. Una Sardegna uniforme. In cui a prevalere
sarebbe l’odiosa, omogenea unicità mondiale: come l’aveva chiamata David
Herbert Lawrence in Mare e Sardegna.
Si avvererebbe la profezia annunciata da Eliseo
Spiga, che nel suo potente e suggestivo romanzo Capezzoli di pietra scrive:
“Ormai il mondo era uno. Il mondo degli
incubi di Caligola. Un’idea. Una legge. Una lingua. Un’eresia abrasa.
Un’umanità indistinta. Una coscienza frollata. Un nuragico bruciato. Un
barbaricino atrofizzato. Un’atmosfera lattea. Una natura atterrita. Un
paesaggio spianato. Una luce fredda. Villaggi campagne altipiani livellati ai
miti e agli umori di cosmopolis”. Sarebbe
un etnocidio: una sciagura e una disfatta etno-culturale e civile, prima ancora
che economica e sociale.
Altro gravissimo problema è quello dei
trasporti interni (abbiamo ancora in monobinario per le ferrovie!) e
soprattutto esterni, con l’Italia e gli altri Stati. Nonostante la retorica
del potere politico statale e regionale, che da decenni strombazzano la “continuità
territoriale”, questa è ancora di là da venire.
A livello politico: La
Sardegna è ugualmente caratterizzata dalla “dipendenza”. I partiti italiani in
Sardegna rappresentano e costituiscono delle succursali dei Partiti statali e
rispondono non ai bisogni dei Sardi ma agli ordini dei loro gerarchi romani,
milanesi ecc.
Per utilizzare il lessico di Francesco Masala – il nostro più grande poeta
etnico – i Partiti italiani nell’Isola altro non sono che “le la filiali
isolane della fabbrica politica italiota, che si limitano a importare
nell’Isola i manufatti politici prodotti in Continente: insomma una grave forma di centralismo burocratico,
di colonialismo politico-culturale, senza nessun approfondimento né della
Questione sarda né della grande lezione del sardismo lussiano”. Costruire
un’alternativa all’insieme della partitocrazia italiota – sostanzialmente il
progetto di AutodetermiNatzione – è dunque urgente e necessario per la
liberazione nazionale e sociale della Sardegna, iniziando a “rompere” la dipendenza
politica ma anche economica e culturale-linguistica.
5.Quali sono
stati i principali ostacoli per il movimento indipendentista?
Risposta
Sono soprattutto di ordine culturale. Ma
anche psicologico. Secoli di colonialismo culturale e linguistico hanno
dessardizzato e snazionalizzato i Sardi. Per annichilire l’identità
etno-nazionale dei Sardi è in atto – secondo Simon Mossa, il moderno teorico
dell’Indipendentismo sardo – “un processo forzato di integrazione che minaccia
l’identità culturale, linguistica ed etnica, anche con la complicità di molti
sardi che si lasciano comprare”. Uno
degli elementi che per Simon Mossa devasta maggiormente l’Identità di un popolo
è l’attacco alla cultura e alla lingua locale: in Sardegna dunque il
divieto e la proibizione della cultura e della lingua sarda, segnatamente
dell’uso pubblico del Sardo.
L’ideologo nazionalitario e indipendentista sa bene che un popolo senza
Identità, in specie culturale e linguistica, è destinato a “morire”: “Se saremmo assorbiti e inglobati nell’etnia
dominante e non potremmo salvare la nostra lingua, usi costumi e tradizioni e
con essi la nostra civiltà, saremmo inesorabilmente assorbiti e integrati nella
cultura italiana e non esisteremo più come popolo sardo. Non avremmo più
nulla da dare, più niente da ricevere. Né come individui né tanto meno come
comunità sentiremo il legame struggente e profondo con la nostra origine ed
allora veramente per la nostra terra non vi sarà più salvezza. Senza Sardi non si fa la Sardegna. I
fenomeni di lacerazione del tessuto sociale sardo potranno così continuare,
senza resistenza da parte dei Sardi, che come tali, più non esisteranno e così
si continuerà con l’alienazione etnica, lo spopolamento, l’emarginazione
economica”
Il pretesto e l’alibi di tale “genocidio” è stato – ed è – che occorreva
(occorre) trascendere e travolgere le arretratezze del mondo “barbarico” – per
noi Sardi “barbaricino” – le sue superstizioni, le sue “aberranti” credenze, i
suoi vecchi e obsoleti modelli socio-economico-culturali, espressione di
una civiltà preindustriale e rurale, considerata ormai superata. I motivi veri sono invece da ricondurre
alla tendenza del capitalismo e degli Stati – e dunque delle etnie dominanti –
a omologare in nome di una falsa “unità”, della globalizzazione dei mercati,
della razionalità tecnocratica e modernizzante, dell’universalità cosmopolita e
scientista, le etnie marginali e con esse le loro differenze, in quanto
portatrici di codici “altri”, scomodi e renitenti, ossia reverdes (ribelli).
Cancellata la nostra storia, recisa la nostra lingua (ad iniziare dalla Scuola
ufficiale dello stato italiano), senza più difese, è più facile dominarci e
assoggettarsi anche psicologicamente, azzerando la nostra autostima e,
facendoci credere che solo dall’Italia e da fuori, possiamo aspettare la nostra
liberazione. Perché da soli, da noi stessi non possiamo avere garantita neppure
la nostra esistenza e la nostra vita. Si sentono persino simili piacevolezze:
se diventiamo “indipendenti” e ci separiamo dall’Italia, chi potrebbe garantire
le nostre pensioni?
6.Perché pensa
che i partiti italiani abbiano avuto più successo in Sardegna rispetto al
movimento indipendentista?
Risposta
Perché detengono da sempre il potere. Non solo quello politico, burocratico e
amministrativo ma quello culturale. Hanno occupato manu militari le Università;
gli Enti di qualsivoglia genere: ad iniziare da quelli bancari. Hanno i “loro”
Sindacati, ad iniziare da CGIL-CISL-UIL. Attraverso
questi Enti controllano e dirigono l’opinione pubblica, distribuiscono posti di
lavoro (per la verità sempre meno, specie con la crisi fiscale dello Stato),
prebende, mance e dunque nelle elezioni raccolgono il consenso popolare. Inoltre
posseggono ingenti risorse economiche e finanziarie provenienti non solo dai
plurimi finanziamenti pubblici ma da sostegni privati (spesso illegali, con le
tangenti). Si sono sostanzialmente
“impadroniti” dei grandi mezzi di comunicazione di massa: grandi Quotidiani e
Giornali, TV, pubbliche e private: attraverso di essi condizionano e
indirizzano l’opinione pubblica e il consenso elettorale.
7.Qual sarebbe
la strategia migliore per avanzare la questione dell’indipendenza a livello
popolare? Come cercare di coinvolgere i Sardi che si sentono emarginati?
Risposta
Attraverso una capillare, ubiquitaria e diffusa controinformazione culturale e
politica: senza limitarsi ad agitare al vento facili slogan o discorsi che non
riescono a far muovere i mulini per macinare grano. L’importante sarà fare le cose non limitarsi a denunciarle,
sperimentare e non solo predicare, praticare l’obiettivo, praticare scampoli di
indipendenza e non aspettare l’ora x in cui questa si raggiungerebbe.
L’importante è incrociare la gente, i
lavoratori, i giovani, costruire trame che organizzino e compattino i soggetti
sui bisogni, gli interessi, la crescita culturale e civica, favorendo
l’autorganizzazione dei cittadini e il protagonismo sociale, i contropoteri
polari. Ma soprattutto occorrerà che gli Indipendentisti si diano una
“visione”, una cultura alta e “altra”. Con la valorizzazione e l’esaltazione
delle diversità, ovvero delle specifiche “Identità”: certo per aprirsi e
guardare al futuro e non per rifugiarsi nostalgicamente in una civiltà che non
c’è più; per intraprendere, come Comunità sarda, il recupero della nostra
prospettiva esistenziale: la comunità e
i suoi codici etici basati sulla solidarietà e sul dono, i valori
dell’individuo/persona incentrati sulla valentia personale come coraggio e
fedeltà alla parola e come via alla felicità. E insieme per percorrere una
“via locale” alla prosperità e al benessere e partecipare così,
nell’interdipendenza, agli scambi e ai rapporti economici e culturali. Convinti
e consapevoli che la standardizzazione e l’omologazione, insomma la reductio ad
unum, rappresenta una catastrofe e una disfatta, economica e sociale ancor
prima che culturale, per gli individui e per i popoli. Omologazione che annulla progressivamente le specificità: ibernandole
nella bara della tecnica, del calcolo economico, del mercato, della
mercificazione.
8.Pensa che
l’Unione Europea abbia un ruolo da svolgere nelle lotte per
l’autodeterminazione? Come descriverebbe la posizione della Sardegna in Europa?
Risposta
L’attuale Unione Europea è nemica dei
popoli che nel Vecchio Continente si battono per l’Autodeterminazione e per
l’indipendenza: basti pensare alla sua posizione nei confronti dei Catalani.
La UE è oggi l’Europa degli Stati (anzi degli Stati forti, ad iniziare dalla
Germania) non dei popoli. E’ l’Europa delle banche, della finanza, delle
multinazionali, dei burocrati e autocrati.
E’ un’Europa anti
sociale e antidemocratica, egoista e antisolidarista, da cui niente c’è da
aspettarsi. Occorre dunque battersi per un’Europa radicalmente diversa: democratica, sociale,
solidale, ecologica, aperta; un’Europa dei diritti: sociali oltre che civili.
Che metta al primo posto, valorizzandole, le identità peculiari dei popoli: ad
iniziare dalle loro lingue native. All’interno di questa Europa rinnovata
completamente la Sardegna entrerebbe a pieno diritto, con la sua storia, le sue
tradizioni, le sue produzioni materiali e immateriali. Per dare e ricevere.
Confrontandosi. Contaminandosi. Arricchendosi.
9.Pensa che la
questione della lingua sia una parte indispensabile per la lotta per
l’indipendenza?
Risposta
Certamente sì. Il già citato Francesco Masala era solito affermare che: A unu
populu nche li podes moer totu e sighit a bivere, ma si nche li moes sa limba
si nche si nche morit (a un popolo puoi togliere tutto e continua a vivere, ma
se gli togli la lingua , muore).
La nostra lingua, il sardo è infatti la
più forte ed essenziale componente del nostro patrimonio ricchissimo di
tradizioni e di memorie popolari, e sta a fondamento dell’identità della Sardegna
e del diritto ad esistere dei Sardi, come nazione e come popolo. Essa
affonda le sue radici nel senso profondo della sua storia, atipica e dissonante
rispetto alla coeva storia e cultura mediterranea ed europea.
Nell’epoca della globalizzazione, il rapporto fra le lingue è un banco di prova
– e anche una grande metafora – del rapporto fra le culture. Comunicare
restando diversi, ascoltare l’altro senza rinunciare alla propria pronuncia,
essere radicati in una tradizione senza fare di questo, un elemento di
separatezza o di esclusione o di sopraffazione: il rapporto fra le lingue – la compresenza attiva di moltissime lingue
– dimostra che è possibile tendere alla comprensione salvando la differenza.
Nella nostra epoca, come muoiono specie
animali e vegetali, così anche molte lingue si estinguono o sono condannate
alla sparizione. Per ogni lingua che muore è una cultura, una memoria ad
essere abolita. Un universo di suoni e di saperi a dileguarsi. Preservare
allora le specie linguistiche – nonostante le migrazioni, le egemonie
mercantili, le colonizzazioni mascherate – dovrebbe essere il primo compito
dell’ecologia della cultura e del sapere.
L’idea di una lingua unica perduta è
solo un sogno: un frivolo sogno lo definiva già Leopardi nello Zibaldone. E
anche l’idea che sia necessaria una lingua unica che permetta a tutti di
intendersi immediatamente non riesce a nascondere il disegno egemonico: disegno
che è in particolare di ordine mercantile. Anche perché,: a cosa servirebbe –
si chiede il Professor Sergio Maria Gilardino, docente di letteratura comparata
all’Università di Montreal (Canada) e grande difensore delle lingue ancestrali
– conoscere e parlare tutti nell’intero Pianeta la stessa lingua, magari
l’inglese, se non abbiamo più niente da dirci, essendo tutti ormai omologati e
dunque privi e deprivati delle nostre specificità e differenze? Ma c’è di più: certi programmi
“internazionalisti”che prevedono una unificazione linguistica dell’umanità e
una scomparsa delle nazionalità, quando non sono inutili esercitazioni
retoriche, sono in genere la mistificazione di concezioni sciovinistiche, o
addirittura nascondono intenzioni di genocidio culturale di derivazione
imperialistica.
Le lingue imposte via via dai colonizzatori hanno sbaragliato e mortificato e
distrutto le forme e l’energia inventiva delle lingue locali. Il controllo
politico, le ragioni di mercato, i progetti di assimilazione hanno sacrificato
tradizioni e culture, suoni e nomi, relazioni profonde tra il sentire e il
dire. E tuttavia più volte è accaduto
che quelle culture vinte abbiano attraversato le lingue egemoni irrorandole di
nuova linfa creativa: è quel che è accaduto meravigliosamente nelle letterature
ibero-americane, è quel che accade oggi nelle letterature africane di lingua
portoghese, inglese e francese o nella letteratura nordamericana o in quella
inglese. Inoltre le migrazioni hanno dappertutto esportato saperi,
confrontato stili di vita e di pensiero, contaminato linguaggi e sogni e
memorie. Molti poeti e scrittori del ‘900 appartengono a una storia di
migrazioni tra le lingue: da Elias Canetti a Paul Celan, da Vladimir Nabokof a
Iosif Brodskij, da Isaac Bashevis Singer a Salman Rushdie, da Witold Marian
Gombrowicz a Vidiadhar Suraiprsar Naipaul.
Intervista a Francesco Casula
Saggista, storico della letteratura sarda
autore
del libro, tra gli altri, de “Carlo Felice e i tiranni
sabaudi”
La foto del professore è stata
realizzata da “Flavia”
Ci
teniamo a sottolineare che la foto era originariamente a colori, ma da tempo il
blog “Sa babbaiola” ho scelto di proporre le foto in bianco e nero.
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