(23 marzo
1944) Alle ore 15 circa, esplode una bomba in Via Rasella a Roma. La potenza
del fuoco investe una compagnia del I battaglione del Reggimento di Polizia
tedesca “Bozen,” che stava transitando proprio in quel momento. Dei 156 uomini tra ufficiali, sottufficiali e truppa, 32
militari rimangono uccisi e 110 feriti. L’attentato fornirà il pretesto
per la rappresaglia tedesca: l’eccidio delle Fosse Ardeatine in cui verranno
trucidati 335 innocenti, tutti estranei all’attentato.
I partigiani
che organizzarono l'attentato appartenevano alle Brigate
Garibaldi, organizzate dal Partito Comunista italiano allora fuorilegge.
Dopo alcuni appostamenti le brigate notarono che un gruppo di soldati tedeschi
percorreva praticamente ogni giorno alcune strette strade nel centro di Roma.
La regolarità del loro percorso, i ranghi compatti in cui marciavano e la
stessa strettezza delle strade rendevano il gruppo un bersaglio ideale per
un’azione di guerriglia urbana.
Il luogo
scelto per l’attacco fu via Rasella, una parallela di via del Tritone. In un bidone della spazzatura vennero sistemate alcune
cariche di esplosivo, mentre un gruppo di partigiani si appostò nelle
vie vicine per sparare sui tedeschi dopo le esplosioni. Uno studente di
medicina, Rosario Bentivegna, 21 anni, travestito da spazzino, sistemò il
bidone nella strada.
Intorno alle
15.30, circa mezz’ora in ritardo rispetto all’orario previsto, i soldati
tedeschi comparvero in fondo alla strada. La colonna,
composta da 156 uomini tra ufficiali, sottufficiali e truppa, attraversava il
centro, dopo aver partecipato all'addestramento al poligono di tiro di
Tor di Quinto, diretta al Palazzo del Viminale (già sede del Ministero
dell'Interno) dove era acquartierata. I soldati marciavano con fucili in spalla
e bombe a mano alla cintola, in genere cantando canti militari.
Intanto un
altro partigiano, Franco Calamandrei, diede il segnale levandosi il cappello.
Bentivegna accese la miccia dell’esplosivo e si allontanò. Un’altra partigiana,
Carla Cappone, lo aspettava poco distante: lo coprì con un impermeabile per
nascondere l’uniforme da spazzino e si allontanò insieme a lui.
Hitler,
furioso, ordinò di radere al suolo un intero quartiere di Roma e di far passare
per le armi 50 Italiani per ogni morto tedesco; Kesselring mediò per
ridurre il numero di vittime a 10 per ogni morto. Nella notte tra il 24 ed il
25 marzo i Tedeschi prelevarono dal carcere di Regina Coeli e dal quartier
generale dei nazisti di Via Tasso 335 prigionieri politici arrestati per
piccole infrazioni, semplici sospettati. Furono portati alle vecchie cave di
pozzolana sulla Via Ardeatina, fra le antiche
catacombe cristiane di Domitilla e di San Callisto.
Tra
loro ci fu anche un prete, che appoggiava la resistenza. Era stato
prelevato con altri quattro della sua cella, forse perché i Tedeschi volevano
salvare l’apparenza di non lasciar morire i condannati senza i conforti
religiosi. I prigionieri erano legati due a due per i polsi e, in fila,
attendevano di giungere nel luogo dove un colpo alla nuca li avrebbe uccisi.
Don Pietro fu legato a Joseph Reider, un medico pacifista austriaco che aveva
disertato dalla Wermacht ed era stato arrestato con un falso nome italiano.
Gli
altri condannati gli chiesero una benedizione: Don Pietro riuscì a liberare la
mano destra e a impartire l’assoluzione. Reider, approfittando dello
scioglimento dei legacci, riuscì a gettarsi in un fossato e a sfuggire alla
morte (unico superstite delle Ardeatine). Alcuni
soldati tedeschi posero in disparte il sacerdote per salvarlo ma lui, secondo
la testimonianza di Reider, rifiutò chiedendo di morire come gli altri.
Nessun commento:
Posta un commento