martedì 23 marzo 2021

La bomba in via Rasella e la rappresaglia delle fosse Ardeatine


 

(23 marzo 1944) Alle ore 15 circa, esplode una bomba in Via Rasella a Roma. La potenza del fuoco investe una compagnia del I battaglione del Reggimento di Polizia tedesca “Bozen,” che stava transitando proprio in quel momento. Dei 156 uomini tra ufficiali, sottufficiali e truppa, 32 militari rimangono uccisi e 110 feriti. L’attentato fornirà il pretesto per la rappresaglia tedesca: l’eccidio delle Fosse Ardeatine in cui verranno trucidati 335 innocenti, tutti estranei all’attentato.

 

I partigiani che organizzarono l'attentato appartenevano alle Brigate Garibaldi, organizzate dal Partito Comunista italiano allora fuorilegge. Dopo alcuni appostamenti le brigate notarono che un gruppo di soldati tedeschi percorreva praticamente ogni giorno alcune strette strade nel centro di Roma. La regolarità del loro percorso, i ranghi compatti in cui marciavano e la stessa strettezza delle strade rendevano il gruppo un bersaglio ideale per un’azione di guerriglia urbana.

 

Il luogo scelto per l’attacco fu via Rasella, una parallela di via del Tritone. In un bidone della spazzatura vennero sistemate alcune cariche di esplosivo, mentre un gruppo di partigiani si appostò nelle vie vicine per sparare sui tedeschi dopo le esplosioni. Uno studente di medicina, Rosario Bentivegna, 21 anni, travestito da spazzino, sistemò il bidone nella strada.

 

Intorno alle 15.30, circa mezz’ora in ritardo rispetto all’orario previsto, i soldati tedeschi comparvero in fondo alla strada. La colonna, composta da 156 uomini tra ufficiali, sottufficiali e truppa, attraversava il centro, dopo aver partecipato all'addestramento al poligono di tiro di Tor di Quinto, diretta al Palazzo del Viminale (già sede del Ministero dell'Interno) dove era acquartierata. I soldati marciavano con fucili in spalla e bombe a mano alla cintola, in genere cantando canti militari.

Intanto un altro partigiano, Franco Calamandrei, diede il segnale levandosi il cappello. Bentivegna accese la miccia dell’esplosivo e si allontanò. Un’altra partigiana, Carla Cappone, lo aspettava poco distante: lo coprì con un impermeabile per nascondere l’uniforme da spazzino e si allontanò insieme a lui.

 

Hitler, furioso, ordinò di radere al suolo un intero quartiere di Roma e di far passare per le armi 50 Italiani per ogni morto tedesco; Kesselring mediò per ridurre il numero di vittime a 10 per ogni morto. Nella notte tra il 24 ed il 25 marzo i Tedeschi prelevarono dal carcere di Regina Coeli e dal quartier generale dei nazisti di Via Tasso 335 prigionieri politici arrestati per piccole infrazioni, semplici sospettati. Furono portati alle vecchie cave di pozzolana sulla Via Ardeatina, fra le antiche catacombe cristiane di Domitilla e di San Callisto.

 

Tra loro ci fu anche un prete, che appoggiava la resistenza. Era stato prelevato con altri quattro della sua cella, forse perché i Tedeschi volevano salvare l’apparenza di non lasciar morire i condannati senza i conforti religiosi. I prigionieri erano legati due a due per i polsi e, in fila, attendevano di giungere nel luogo dove un colpo alla nuca li avrebbe uccisi. Don Pietro fu legato a Joseph Reider, un medico pacifista austriaco che aveva disertato dalla Wermacht ed era stato arrestato con un falso nome italiano.

 

Gli altri condannati gli chiesero una benedizione: Don Pietro riuscì a liberare la mano destra e a impartire l’assoluzione. Reider, approfittando dello scioglimento dei legacci, riuscì a gettarsi in un fossato e a sfuggire alla morte (unico superstite delle Ardeatine). Alcuni soldati tedeschi posero in disparte il sacerdote per salvarlo ma lui, secondo la testimonianza di Reider, rifiutò chiedendo di morire come gli altri.

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