lunedì 1 marzo 2021

A Jerzu non si urla mai (ricordi di viaggio) di Vincenzo Maria D’Ascanio


 

Come ogni Sabato ritorno a Jerzu, il mio paese di origine, per trascorrere il fine settimana e dimenticare la città, che sa anche essere fastidiosa. Quando frequentavo l’Università, ritornavo a Jerzu anche una volta ogni quattro mesi, ma la situazione era ben diversa. Nei primi anni del 2000 occorreva percorrere una strada terrificante nelle famigerate corriere sarde.

 

Dopo il viaggio da incubo di tre ore, quando arrivavi al paese eri nauseato e quando mettevi piede sul marciapiede eri mezzo pazzo e maledicevi l’autista inventandoti divinità ufficiali oppure di tua creazione. Adesso è tutto diverso, la strada è nuova e perfetta, ho la macchina coi finestrini che si chiudono e non devo sopportare l’aria gelata a violentarmi collo, spirito e intelletto. Insomma, arrivi al paese integro, e allora fai le cose che devi fare.

 

Prima cosa, andare a trovare i tuoi genitori. Parcheggio davanti al cimitero e infilo le mani nelle tasche, salgo sulle scale e ogni volta la stessa storia, dimentico sempre dove si trova la tomba di mia madre. Devo sempre molestare qualche affranto, che sa sempre il punto esatto e non ne comprendo mai le ragioni. Forse la mia è una forma di autodifesa mentale, non so, e quando infine mi trovo dinanzi alla sua foto sorridente, chiudo gli occhi, la cerco nel mio spirito e lei si fa largo tra il marcio che porto nel cuore, e allora parliamo, e ci diciamo cose che i vivi è meglio non sappiano.

 

Poi, dopo questo tonificante bagno di dolore, vado a trovare mio padre che mi racconta le ultime novità, a farmi dire dei nipotini, a rispondere a domande sempre uguali, come “ed i bambino come sta, sei andato a trovarlo?”

“No babbo, non sono andato, se son qui non posso essere a Carbonia, ma poi sta bene, adesso devo stare qui.”

“E perché devi stare qui?” A questo punto m’invento una balla, non gli dico che sono ritornato per lui, non intendo manifestargli qualsiasi preoccupazione. Accidenti, ha perso la donna con cui ha trascorso la sua vita, che gli ha dato quattro figli, con cui ha sofferto, gioito, vissuto, con cui ha fatto scudo. Eppure lui sta sempre nella sua camicia, come Francesco Guccini, a raccontare e raccontarsi.

 

Non so, forse è una caratteristica dei nuoresi, o forse della sua stirpe, alla fin fine è lui ad aiutare a me e non il contrario, che io son nato col cuore debole, e mi basta trovare un capellino con nastrino per perforarmi anima, cuore, cervello e a spingermi in quel caos mentale che mi costringe a ritornare in me stesso, e trovare delle giustificazioni a tutto questo. Puro esercizio mentale, perché giustificazioni non ne trovo mai. Alla morte non puoi dare ragioni.

Infine esco, e incontro qualche nuovo e giovane amico, e mi sorprendo sempre per la loro vitalità. Proprio ieri ragionavo con due di loro, e forse ho individuato il motivo della loro allegria in questa società decadente.

 

Prima pensavo che forse non fossero consapevoli di quanto accadesse, come io alla loro età non ero consapevole dei veri poteri che governano il mondo. Cioè, a loro va bene e si divertono come possono, fanno il percorso dei nostri padri, sono nati in una società allo sfascio, e pensano che la società sia quella, che non ci siano alternative. Noi, la mia generazione, arriva da una società al massimo della sua potenza economica, e abbiamo visto lo sgretolarsi lento e inesorabile di un mondo che pareva indistruttibile.

 

Per dirla in breve, quando noi parlavamo dei nostri destini, quando avevamo ventidue o ventitré anni, ritenevamo che l’impiego pubblico fosse il massimo della “sfiga,” avevamo dinanzi un oceano di possibilità. Io pensavo “no, la fine di mia madre non la faccio, cazzo”, dietro una scrivania, a fare calcoli, ad affacciarsi alla finestra e vedere Su Muntonargiu. “Zero”. Ora, invece, trovare un impiego pubblico è come trovare un forziere stracolmo di monete d’oro alla fine dell’arcobaleno, tragicamente impossibile. Conosco persone che darebbero un rene e forse mezzo cuore, per stare dietro quella scrivania che odiavo... e oggi, oggi l’impiego pubblico è cambiato, ci sono i parametri di produttività, mazzi vari, leggi naziste, mica come prima, che entravi in certi servizi e ti domandavi se l’impiegato dinanzi a te fosse sveglio oppure stesse dormendo, visto che si muoveva con la stessa vitalità del triste, povero, distrutto, Presidente Mattarella.

 

I ragazzi della mia generazione, Dio ne tenga conto! Invece, questi ragazzi di oggi, sono allegri e gentili, non hanno conosciuto il periodo d’oro e si son fatti scaltri, sono più uniti, si organizzano, si amano, hanno il sorriso sincero e gli occhi intelligenti. Di certo non hanno preparazione ideologica ma, beati loro dico io, beati loro!

 

Ieri in un locale è stato organizzato un Karaoke, ed invece di parteciparvi (una persona triste che canta è uno spettacolo abominevole, come un tizio travestito da pagliaccio It che scorta la vedova del compianto marito), ho girovagato per le strade del paese, tra le case silenziose, fotografando la porta dove un tempo la famiglia paterna entrava e usciva, per fare quel pane che ci ha permesso di studiare, diventare noi stessi padri, essere donne e uomini onesti.

 

Mentre mi trovavo dinanzi a quella porta ho pensato a mio padre, ai miei zii e soprattutto a mio nonno Mario, eroe di guerra, panettiere da sorriso e cuore gentile, che Dio mi ha tolto quando ero bambino e di cui avrei avuto tanto bisogno per crescere meno felino, e di cui ricordo tutto come se fosse ieri, che la sventura mi ha dato una memoria di ferro. Nonno, caro nonno, scendi a darmi una mano, che ho in mente le promesse che mi hai fatto, ed i posti che dovevamo vedere, e le persone che dovevamo incontrare!

 

Dopo ci siamo fermati in una panchina di Cuccreddu, il quartiere più antico del paese, quello più prossimo alle montagne, la Barbagia di Jerzu. Eravamo accucciati nei nostri giubbotti, in alto, come sparvieri pronti a planare sulla valle. Solo allora ho osservato le singole case, e nella mente ho percorso i miei ricordi, e il dolore e la gioia in essi contenuti, riflettendo sul fatto che in questo paese il dolore è riservato alle quattro mura, mentre nel mio quartiere cittadino è spaventosamente strillato. Urla di madri sui figli drogati o alcolizzati, urla di uomini disoccupati contro fantasmi immaginari, urla di gente che sta male, e alle sette del mattino, quando torno dal lavoro, urlano... e urlano non alla fine della giornata, ma appena svegli, all’alba, come se ci trovassimo in una Sarajevo appena bombardata.

 

Anch’io a volte urlo, ma urlo col mio scrivere, che il Signore non mi ha dato mai il dono della discrezione, e devo raccontare i fatti miei al mondo, agli uomini, alle donne ed alle bestie con sembianze umane. A conti fatti, son contento di farlo, perché poi mi scrivono le persone che hanno la stessa voglia di urlare, e mi domandano come fare, ed io m’invento risposte e alchimie, rimedi e tecniche mentali. Forse dovrei dire, vieni, vieni a conoscere i ragazzi del mio paese, che loro ti sapranno spiegare, e magari t’insegneranno a vivere, piuttosto che a mettere continuamente pezze sugli strappi, e tappi sulle falle, come faccio io, da troppo, troppo tempo.

 

#vincenzomariadascanio


Nessun commento:

Posta un commento