lunedì 22 marzo 2021

Il lavoro è un diritto. La disoccupazione è la drammatica sottrazione di un diritto. Di Lucia Chessa.


 


Lo so, ci sono cose più importanti e poi di questi tempi, sento forte il privilegio di avere un lavoro e di averlo sempre avuto, da subito, all’indomani dalla laurea, quasi 40 anni fa. Oggi il lavoro per una generazione intera, e forse quasi due, è un sogno, un privilegio tale da far apparire accettabile qualsiasi condizione, un miraggio, un traguardo irraggiungibile e questo viene prima di ogni altra considerazione. Perché il lavoro, la possibilità di provvedere a sé stessi e di realizzare il progetto della propria vita è il presupposto di ogni libertà, di ogni dignità, di ogni serenità. Io non dimentico, come molti hanno fatto, che il lavoro è un diritto e che, di conseguenza, la disoccupazione è una drammatica sottrazione di diritto.

 

E così è successo che, davanti all’ingiustizia immensa della disoccupazione, a molti sia sembrato che rivendicare condizioni di lavoro dignitose fosse un di più non necessario, addirittura un atto di irriconoscenza egoistica, ma non è così. Che capolavoro è stato, per la razza padrona e per i suoi molti interpreti politici, contrapporre come fossero in antitesi il diritto ad avere un lavoro con il diritto a condizioni dignitose di lavoro. Che capolavoro è stato innescare la guerra tra presunti “dipendenti fannulloni” (anche quando precari), e le partite iva e le piccole imprese individuali esposte e senza garanzie.

 

Io, a 60 anni, sono diventata, senza alcuna tutela, un’insegnante da didattica a distanza. Come chiedere, da un giorno all’altro, ad un cane caccia di diventare un cane pastore e viceversa; oppure come chiedere ad un cavallo da corsa di diventare una bestia da tira o viceversa, come chiedere ad una mela di trasformarsi in una pera e viceversa. Mi è stato chiesto di imparare da sola ad usare piattaforme e classi virtuali, a creare spazi-lezione attorcigliandomi ogni giorno su ogni clik sopra la mia tastiera. Ci è stato chiesto e lo abbiamo fatto sputando sangue.

 

Nel corso di quest’anno, tra riunioni online, studio, lezione, correzione di compiti, colloqui, consigli di classe, ho trascorso ore ed ore ed ore del giorno (e spesso anche della notte) davanti al computer. Seduta con gli occhi dritti sullo schermo. Fratzicata come si dice al mio paese. Nonostante ciò, lo dico per gli estimatori di Conte e della Azzolina e di tutti i giallo rosa che hanno governato il lavoro durante la pandemia, non è stato riconosciuto agli insegnanti lo status di lavoratore al terminale che in Italia è quello che trascorre al computer 20 ore settimanali.

 

Se sei un lavoratore al terminale, in Italia, hai alcuni diritti: sorveglianza sanitaria per lo stress a cui sottoponi i per esempio i tuoi occhi, oppure pausa di 15 minuti ogni due ore di lavoro, se non vuoi compromettere la tua capacità visiva, ma agli insegnanti no. Anzi. Per gli insegnanti la didattica a distanza, in aggiunta alle difficoltà di una profonda, faticosa e solitaria riconversione strumentale e metodologica del proprio lavoro, ha comportato nuovi adempimenti di recupero, di rendicontazione, di compilazione di format, di questo e di quello perché per gli insegnanti non è mai abbastanza quello che fai perché in fondo la leggenda delle 18 ore e dei 3 mesi di ferie è il presupposto su cui poggiare un continuo attacco formale e sostanziale. Il lavoro va difeso, il lavoro dignitoso va difeso, la certezza del lavoro va difesa, la dignità del lavoro va difesa. Mentre litigate su poltrone e vi spartite tutto quello che si può spartire, io credo che qui sia tutto da ricostruire in una dimensione di giustizia ed equità. Buongiorno, che devo andare a scuola.

 

Di Lucia Chessa

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