lunedì 15 marzo 2021

Bertinotti fa il punto e ricorda Luigi Cogodi


«Non credo che la soluzione di una crisi, che riguarda il modello di società e l'organizzazione politica, possa essere affrontata solo con un cambio al vertice. Il ritorno di Enrico Letta non mi pare possa risolvere i problemi del Pd. Siamo arrivati a una crisi irreparabile. È il tempo della rinascita, non degli aggiustamenti, perché la crisi è troppo profonda. Il tema è proprio la rifondazione di una politica e di una formazione che deve interrogarsi su cosa vuole essere».

 

Fausto Bertinotti, 80 anni, una vita a sinistra nella Cgil e nei partiti (dal Psiup al Pci a Rifondazione comunista), presidente della Camera dal 2006 al 2008, non pensa che l'ex premier possa salvare il Pd. Sul governo il giudizio è caustico: «Nun me piace 'o presepe, per dirla con Eduardo De Filippo. Questo esecutivo non mi piace per varie ragioni e soprattutto perché è un'altra tappa sulla strada dell'eutanasia della politica. Un lungo processo, ma in quest'ultimo periodo la situazione è precipitata. La democrazia rappresentativa inItalia è stata sostanzialmente sospesa e non solo per l'emergenza sanitaria, che ha determinato un'accelerazione del processo».

 

Il governo Draghi cosa è?

«L'aspetto più significativo è il carattere oligarchico. È un esecutivo basato sulla chiamata di un'autorità che è una sorta di nuovo Principe, che sceglie per i dicasteri più importanti personalità vicine al suo mondo. Prevale la tecnicità. L'asse con la Commissione europea e la Bce è la nervatura strategica».

 

La sinistra?

«Paga il prezzo maggiore, come sempre avviene quando la politica entra in crisi. Il perno della sinistra istituzionale è il Pd che ha fatto della governabilità l'alfa e l'omega della sua azione. Il governo è la sua “weltanschauung”. Il Pd, che ha abbandonato l'analisi critica del capitalismo contemporaneo, è diventato il paladino della stabilità. Nel momento in cui il nuovo Principe fa da sé, cioè è lui che garantisce stabilità e continuità, il Pd resta nudo. Non ha più la forza che gli derivava dal fatto di essere il garante degli equilibri».

 

Il Pd ha subìto anche lo shock delle dimissioni di Zingaretti?

«Le dimissioni di Zingaretti hanno reso manifesta la condizione di cuiparlavo prima».

 

Le grandi famiglie politiche hanno ancora un senso?

«La crisi costringe a cercare identità definite, non necessariamente quelle classiche. Come fai a rimotivare le persone? La questione centrale dev'essere oggi la ricostruzione di un popolo di sinistra che è stato sedotto e poi abbandonato. Non c'è un progetto politico che affronti le emergenze sociali che il Covid ha reso più gravi».

 

Cosa si può fare per entrare in sintonia con le persone?

«Lo scrittore Paul Auster ha detto a Joe Biden: “La sinistra anche moderata per avere una prospettiva deve riconnettersi con le classi più disperate delle aree della deindustrializzazione”. Ma per ritrovare la sintonia con i ceti più fragili ci vuole una radicalità di atteggiamenti e di obiettivi. Bisogna distogliere lo sguardo dal governo e rivolgere l'attenzione al conflitto sociale. Un'operazione difficile, drammatica, ma necessaria per la sinistra».

 

Lei ha detto: sono comunista ma la speranza è Papa Francesco.

«Nella politica mondiale non c'è stato in questi ultimi tempi un atto così forte e così carico di significati come il viaggio del Pontefice in Iraq, dove ha portato un'idea di pace e di dialogo contro tutti i muri e le barriere».

 

La caduta del governo Prodi nel 1998. Si è pentito di quella scelta?

«È Il punto su cui sono più tranquillo. Non ho dubbi. Più passa il tempo e più sono convinto di quella decisione. Si trattava di scegliere tra la rottura dello schema dell'Europa di Maastricht e il consolidamento di quel modello».

 

C'è un errore che non rifarebbe?

«Siamo a Genova, al G8. In quel momento con un atto di coraggio sarebbe stato necessario far confluire Rifondazione comunista nel movimento no global per far nascere una nuova soggettività politica. Ho capito troppo tardi quello che doveva essere fatto».

 

In Sardegna lei ha conosciuto tante compagne e compagni.

«Ho seguito da sindacalista tante vertenze. Una volta sono salito su una ciminiera, pur soffrendo di vertigini, per manifestare solidarietà agli operai impegnati in una protesta per difendere il loro lavoro. Ho incontrato compagne e compagni a cui sono legato nella memoria, nell'affetto e nella nostalgia. Non posso dimenticare Luigi Cogodi, un compagno che non c'è più. Conservo il ricordo della sua umanità e della sua straordinaria interpretazione dell'autonomia sarda, che per lui non era una banale rivendicazione separatista, ma il punto di partenza di una grande cultura politica».

 

Massimiliano Rais

 

 

Articolo “Unione Sarda” del 15.03.2021

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Federico Marini

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