“I giovani sono vittime”. Se ci fermassimo qui
nella lettura delle dichiarazioni del ministro per la Pubblica
Amministrazione, Renato Brunetta, a Radio24, ospite di Maria Latella, potremmo
forse essere tutti d’accordo. Abbiamo tutti ancora negli occhi le immagini di Luana,
uccisa a 22 anni da una macchina tessile, e quelle di Samuel,
19 anni, studente lavoratore, ucciso dall’esplosione di una ditta di cannabis
light. Lei era un’apprendista, una vita da meno di 1000 euro al mese. Lui
invece era un ‘intermittente’, contratto a chiamata e pochi centinaia di euro
per andare nei campi ad accudire quelle piante che nel deserto economico
dell’Appennino sembravano una promessa di futuro.
“I
giovani sono vittime”: è metafora ma a volte anche una drammatica realtà. Di certo
sono un simbolo, quello del fallimento. Fallimento nascosto, negato,
minimizzato, rimosso. Fallimento di decenni di politiche e riforme che dei
giovani si sono riempite la bocca mentre lasciavano che altri si riempissero le
tasche.
Istruzione:
l’Italia fallisce su abbandono scolastico e numero di laureati Il primo
fallimento è quello che riguarda l’abbandono scolastico. L’obiettivo di Europa
2020 era ridurlo al 10%: l’Europa ce l’ha fatta guadagnando nel 2019 una media
del 10,2%. L’Italia no, si ferma al 13,5%: 134.000 disoccupati e 228.000
inattivi tra i 18 e i 24 anni, con punte del 18,2% del totale nel mezzogiorno e
del 22,4% in Sicilia.
Poco meglio
è andata, così dicono i dati Eurostat, con l’obiettivo del 40% di giovani
laureati. L’Europa centra il target con una media del 40,3%, l’Italia si ferma
al suo obiettivo nazionale e resta molto indietro, in fondo alla classifica:
nel 2019 soltanto il 27,6% dei giovani tra i 30 e 34 anni ha completato gli
studi universitari.
Il
lavoro dei giovani italiani: precario e pagato male rispetto ai colleghi
europei Parlando
di lavoro le cose non migliorano, sopratutto se la situazione si compara ai
risultati attesi. Quella che per Renzi doveva essere una rivoluzione ‘a favore
di giovani e non garantiti’, il Jobs Act approvato
nel 2014, non ha prodotto altro che precarietà e bassi salari. Anche guardando solo ai dati pre-pandemia il
fallimento è lampante: nell’arco di tre anni (2015-2017) si volatilizzarono
nella fascia 15-29 ben 144.278 rapporti a tempo indeterminato, nonostante il
viatico delle cosiddette tutele crescenti. Viceversa, i contratti a termine per
under 29 lievitarono di circa mezzo milione in soli due anni.
Un
occhio alla busta paga basta a comprendere la vera dinamica: 1,4
milioni (circa 1/3 del totale) delle assunzioni a tempo attivate nel 2017
prevedevano retribuzioni sotto ai 1.500 euro. E non è finita qui, perché
paragonando le retribuzioni dei giovani italiani con quelle dei loro colleghi
francesi o tedeschi si trovano dati da vertigine. Secondo Rodolfo Monni, di
Willis Towers Watson Italia, nel 2018 “un neolaureato tedesco poteva
raggiungere €54.351 l’anno, il 66% in più di un collega italiano”. E anche
guardando ad altri paesi il divario resta di oltre 6.500 euro lordi: circa
25.600 euro lordi in Italia, 32.214 euro in media tra Francia, Irlanda, Olanda,
Regno Unito, Spagna e Svezia.
Basta
andare avanti con l’età? No, perché l’Italia già prima della pandemia era
l’unico Paese d’Europa in cui anche coloro che hanno tra 30 e 49 anni percepivano retribuzioni lorde più basse della media
del totale dei lavoratori. Come mai? Per molte ragioni, ma anche a causa del
divario contrattuale con i più anziani, protetti da contratti a tempo
indeterminati pre-Jobs Act, che prevedono maggiori tutele e scatti salariali
automatici.
Difficile
non chiamarlo fallimento.
Ascensore
sociale e diseguaglianze: il fallimento italiano più grande è la predestinazione
delle esistenze
Il dramma
più intollerabile è quello della predeterminazione delle esistenze: l’assenza di politiche pubbliche per l’emancipazione
costringe molti giovani in un futuro già scritto. Secondo il Rapporto
Istat 2020, le disuguaglianze in Italia hanno invertito la corsa
dell’ascensore sociale: l’ultima generazione (1972-1986) ha visto diminuire le
possibilità di guadagnare posizioni di maggiore benessere rispetto ai genitori,
il 26,6% rischia un ‘declassamento’ e solo il 24,9% al contrario può sperare
nel gradino superiore. Più facile scendere che salire: non era mai accaduto per
le generazioni precedenti.
Anche
secondo l’indicatore globale 2020 sulla mobilità sociale del World Economic
Forum l’Italia è agli ultimi posti in Europa: comparando 5 dimensioni diverse
di mobilità sociale (salute, educazione, tecnologia, lavoro e protezione
sociale) siamo in coda con Croazia, Ungheria, Bulgaria, Romania e infine quel
che resta della martoriata Grecia.
A tal
proposito Lamberto Maffei, presidente emerito dell’Accademia dei Lincei, ha scritto parole che vale la pena di ricordare: “i figli delle famiglie benestanti e colte hanno vantaggi
enormi in confronto ai figli di famiglie più povere che non possono
offrire niente: né un supporto culturale, né libri, né viaggi di istruzione
all’estero e spesso neppure i mezzi per poter accedere alle lezioni “in remoto”
in questo tempo intermittente e infinito di didattica a distanza. I figli delle
famiglie meno abbienti saranno cavalli perdenti in partenza. È il blocco cinico
dell’ascensore sociale. È un imbroglio di cui vergognarsi”.
A
quando ministri capaci di confrontarsi con la complessità di questi problemi?
L’Italia
però non si vergogna: ha fallito nelle politiche per le giovani generazioni, ma
persevera negli stessi errori. Visioni vecchie e stereotipate, e interessi
incancreniti di élite autoreferenziali, impediscono a una politica neoliberale
e ideologica di valutare la complessità dei problemi e scegliere soluzioni
adeguate. “I giovani sono vittime - per riprendere le parole del ministro
Brunetta di cui abbiamo detto all’inizio - di una cultura deteriore, di una
cultura assistenzialistica che non mette al centro il merito. Questi giovani
hanno paura di confrontarsi”.
È la solita
minestra riscaldata che ascoltiamo da decenni: i giovani disoccupati perché
‘choosy’ della Fornero, i ‘bamboccioni da mandare fuori casa’ di Padoa
Schioppa, ‘la monotonia del posto fisso’ denunciata da Mario Monti e ‘le serate
al calcetto da preferirsi alla scrittura di un curriculum’ per l’allora
ministro del lavoro Giuliano Poletti. A ogni nuova derisione negli anni è
corrisposto l’annuncio di una ‘nuova’ politica per il ‘bene’ delle giovani
generazioni, ma la verità è che nessuna - a distanza di
anni - può dirsi una politica di successo: che si parli di concorsi e
pubblica amministrazione, di riforme del lavoro o della scuola, di detrazioni
fiscali o politiche abitative il risultato è stato sempre una clamorosa
delusione.
Perché?
Perché di fatto erano riforme malate di conservatorismo. Non c’è infatti azione più neutra e inutile dell’aiutare chi
non ne ha bisogno, o del progettare soluzioni a problemi fuori dalla portata
della maggioranza. Per capire si possono usare almeno tre esempi di
attualità: il curriculum
dello studente, la riforma dei
concorsi di Brunetta, l’investimento per agevolare l’acquisto
della casa annunciato da Draghi. Chiediamoci: a cosa serve
aiutare i figli delle famiglie benestanti ad esibire i propri titoli
extrascolastici? A nulla. La disparità tra chi ha speso 10.000 euro in viaggi
all’estero per apprendere l’inglese e chi non se lo è potuto permettere era già
evidente alle imprese nei curriculum privati, senza alcun bisogno di quello
della scuola pubblica.
Il secondo:
a cosa serve favorire nei concorsi pubblici coloro che hanno potuto spendere
molto in master o altri onerosi titoli simili? Semplicemente a conservare
l’immobilità di un’ascensore sociale già immobile. Il terzo: a cosa serve
costruire agevolazioni per l’acquisto della casa laddove la disponibilità a
spostarsi è una pre-condizione per la ricerca di un lavoro e 1/3 dei giovani
hanno un reddito precario di poche centinaia di euro? Serve ai pochi che hanno
un reddito fisso tale da potersi permettere un mutuo.
La montagna
come si vede partorisce da decenni il topolino e cerca di venderlo come un
‘grande cambiamento’. Il vuoto però urla sempre più
forte, si sta mangiando il futuro, priva il Paese di un ventaglio più
ampio di energie e competenze che potrebbero portare nuova linfa nel nostro
sistema economico. Basti dire che nel PNRR di Draghi è stato eliminato
l’ampliamento della no-tax area per gli studenti universitari: si può essere
più miopi?
L’ottusità
ideologica impedisce di vedere che è in seguito all’affermarsi di questa
politica del ‘merito’, che in realtà è una politica dello ‘status quo’ nella
distribuzione della ricchezza, che è cominciato il lento declino economico e
sociale dell’Italia. Danno la zappa sui piedi dei
ragazzi e delle ragazze più povere, e non si rendono nemmeno conto che
la stanno dando sui piedi di tutti.
Quanto
ancora dovremmo sentire la boria di questi ministri snocciolarci vecchie teorie
fallimentari? Se è uno scherzo, è davvero il momento di dire che non fa più
ridere.
Elisabetta
Piccolotti
Responsabile Cultura,
Giovani e Infanzia nella Segreteria Nazionale di Sinistra Italiana
Articolo tratto da https://www.huffingtonpost.it/
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