sabato 15 maggio 2021

Giovani e merito: dopo anni di politiche fallimentari questa retorica non fa più ridere. Di Elisabetta Piccolotti.


 

 “I giovani sono vittime”. Se ci fermassimo qui nella lettura delle dichiarazioni del ministro per la Pubblica Amministrazione, Renato Brunetta, a Radio24, ospite di Maria Latella, potremmo forse essere tutti d’accordo. Abbiamo tutti ancora negli occhi le immagini di Luana, uccisa a 22 anni da una macchina tessile, e quelle di Samuel, 19 anni, studente lavoratore, ucciso dall’esplosione di una ditta di cannabis light. Lei era un’apprendista, una vita da meno di 1000 euro al mese. Lui invece era un ‘intermittente’, contratto a chiamata e pochi centinaia di euro per andare nei campi ad accudire quelle piante che nel deserto economico dell’Appennino sembravano una promessa di futuro.

 

“I giovani sono vittime”: è metafora ma a volte anche una drammatica realtà. Di certo sono un simbolo, quello del fallimento. Fallimento nascosto, negato, minimizzato, rimosso. Fallimento di decenni di politiche e riforme che dei giovani si sono riempite la bocca mentre lasciavano che altri si riempissero le tasche.

 

Istruzione: l’Italia fallisce su abbandono scolastico e numero di laureati Il primo fallimento è quello che riguarda l’abbandono scolastico. L’obiettivo di Europa 2020 era ridurlo al 10%: l’Europa ce l’ha fatta guadagnando nel 2019 una media del 10,2%. L’Italia no, si ferma al 13,5%: 134.000 disoccupati e  228.000 inattivi tra i 18 e i 24 anni, con punte del 18,2% del totale nel mezzogiorno e del 22,4% in Sicilia.

 

Poco meglio è andata, così dicono i dati Eurostat, con l’obiettivo del 40% di giovani laureati. L’Europa centra il target con una media del 40,3%, l’Italia si ferma al suo obiettivo nazionale e resta molto indietro, in fondo alla classifica: nel 2019 soltanto il 27,6% dei giovani tra i 30 e 34 anni ha completato gli studi universitari.

 

Il lavoro dei giovani italiani: precario e pagato male rispetto ai colleghi europei Parlando di lavoro le cose non migliorano, sopratutto se la situazione si compara ai risultati attesi. Quella che per Renzi doveva essere una rivoluzione ‘a favore di giovani e non garantiti’, il Jobs Act approvato nel 2014, non ha prodotto altro che precarietà e bassi salari. Anche guardando solo ai dati pre-pandemia il fallimento è lampante: nell’arco di tre anni (2015-2017) si volatilizzarono nella fascia 15-29 ben 144.278 rapporti a tempo indeterminato, nonostante il viatico delle cosiddette tutele crescenti. Viceversa, i contratti a termine per under 29 lievitarono di circa mezzo milione in soli due anni.

 

Un occhio alla busta paga basta a comprendere la vera dinamica: 1,4 milioni (circa 1/3 del totale) delle assunzioni a tempo attivate nel 2017 prevedevano retribuzioni sotto ai 1.500 euro. E non è finita qui, perché paragonando le retribuzioni dei giovani italiani con quelle dei loro colleghi francesi o tedeschi si trovano dati da vertigine. Secondo Rodolfo Monni, di Willis Towers Watson Italia, nel 2018 “un neolaureato tedesco poteva raggiungere €54.351 l’anno, il 66% in più di un collega italiano”. E anche guardando ad altri paesi il divario resta di oltre 6.500 euro lordi: circa 25.600 euro lordi in Italia, 32.214 euro in media tra Francia, Irlanda, Olanda, Regno Unito, Spagna e Svezia.

 

Basta andare avanti con l’età? No, perché l’Italia già prima della pandemia era l’unico Paese d’Europa in cui anche coloro che hanno tra 30 e 49 anni percepivano retribuzioni lorde più basse della media del totale dei lavoratori. Come mai? Per molte ragioni, ma anche a causa del divario contrattuale con i più anziani, protetti da contratti a tempo indeterminati pre-Jobs Act, che prevedono maggiori tutele e scatti salariali automatici.

Difficile non chiamarlo fallimento. 

Ascensore sociale e diseguaglianze: il fallimento italiano più grande è la predestinazione delle esistenze

Il dramma più intollerabile è quello della predeterminazione delle esistenze: l’assenza di politiche pubbliche per l’emancipazione costringe molti giovani in un futuro già scritto. Secondo il Rapporto Istat 2020, le disuguaglianze in Italia hanno invertito la corsa dell’ascensore sociale: l’ultima generazione (1972-1986) ha visto diminuire le possibilità di guadagnare posizioni di maggiore benessere rispetto ai genitori, il 26,6% rischia un ‘declassamento’ e solo il 24,9% al contrario può sperare nel gradino superiore. Più facile scendere che salire: non era mai accaduto per le generazioni precedenti.

 

Anche secondo l’indicatore globale 2020 sulla mobilità sociale del World Economic Forum l’Italia è agli ultimi posti in Europa: comparando 5 dimensioni diverse di mobilità sociale (salute, educazione, tecnologia, lavoro e protezione sociale) siamo in coda con Croazia, Ungheria, Bulgaria, Romania e infine quel che resta della martoriata Grecia.

 

A tal proposito Lamberto Maffei, presidente emerito dell’Accademia dei Lincei, ha scritto parole che vale la pena di ricordare: “i figli delle famiglie benestanti e colte hanno vantaggi enormi in confronto ai figli di famiglie più povere che non possono offrire niente: né un supporto culturale, né libri, né viaggi di istruzione all’estero e spesso neppure i mezzi per poter accedere alle lezioni “in remoto” in questo tempo intermittente e infinito di didattica a distanza. I figli delle famiglie meno abbienti saranno cavalli perdenti in partenza. È il blocco cinico dell’ascensore sociale. È un imbroglio di cui vergognarsi”.

 

A quando ministri capaci di confrontarsi con la complessità di questi problemi?

L’Italia però non si vergogna: ha fallito nelle politiche per le giovani generazioni, ma persevera negli stessi errori. Visioni vecchie e stereotipate, e interessi incancreniti di élite autoreferenziali, impediscono a una politica neoliberale e ideologica di valutare la complessità dei problemi e scegliere soluzioni adeguate. “I giovani sono vittime - per riprendere le parole del ministro Brunetta di cui abbiamo detto all’inizio - di una cultura deteriore, di una cultura assistenzialistica che non mette al centro il merito. Questi giovani hanno paura di confrontarsi”.

 

È la solita minestra riscaldata che ascoltiamo da decenni: i giovani disoccupati perché ‘choosy’ della Fornero, i ‘bamboccioni da mandare fuori casa’ di Padoa Schioppa, ‘la monotonia del posto fisso’ denunciata da Mario Monti e ‘le serate al calcetto da preferirsi alla scrittura di un curriculum’ per l’allora ministro del lavoro Giuliano Poletti. A ogni nuova derisione negli anni è corrisposto l’annuncio di una ‘nuova’ politica per il ‘bene’ delle giovani generazioni, ma la verità è che nessuna - a distanza di anni - può dirsi una politica di successo: che si parli di concorsi e pubblica amministrazione, di riforme del lavoro o della scuola, di detrazioni fiscali o politiche abitative il risultato è stato sempre una clamorosa delusione.

 

Perché? Perché di fatto erano riforme malate di conservatorismo. Non c’è infatti azione più neutra e inutile dell’aiutare chi non ne ha bisogno, o del progettare soluzioni a problemi fuori dalla portata della maggioranza. Per capire si possono usare almeno tre esempi di attualità: il curriculum dello studente, la riforma dei concorsi di Brunetta, l’investimento per agevolare l’acquisto della casa annunciato da Draghi. Chiediamoci: a cosa serve aiutare i figli delle famiglie benestanti ad esibire i propri titoli extrascolastici? A nulla. La disparità tra chi ha speso 10.000 euro in viaggi all’estero per apprendere l’inglese e chi non se lo è potuto permettere era già evidente alle imprese nei curriculum privati, senza alcun bisogno di quello della scuola pubblica.

 

Il secondo: a cosa serve favorire nei concorsi pubblici coloro che hanno potuto spendere molto in master o altri onerosi titoli simili? Semplicemente a conservare l’immobilità di un’ascensore sociale già immobile. Il terzo: a cosa serve costruire agevolazioni per l’acquisto della casa laddove la disponibilità a spostarsi è una pre-condizione per la ricerca di un lavoro e 1/3 dei giovani hanno un reddito precario di poche centinaia di euro? Serve ai pochi che hanno un reddito fisso tale da potersi permettere un mutuo.

 

La montagna come si vede partorisce da decenni il topolino e cerca di venderlo come un ‘grande cambiamento’. Il vuoto però urla sempre più forte, si sta mangiando il futuro, priva il Paese di un ventaglio più ampio di energie e competenze che potrebbero portare nuova linfa nel nostro sistema economico. Basti dire che nel PNRR di Draghi è stato eliminato l’ampliamento della no-tax area per gli studenti universitari: si può essere più miopi?

 

L’ottusità ideologica impedisce di vedere che è in seguito all’affermarsi di questa politica del ‘merito’, che in realtà è una politica dello ‘status quo’ nella distribuzione della ricchezza, che è cominciato il lento declino economico e sociale dell’Italia. Danno la zappa sui piedi dei ragazzi e delle ragazze più povere, e non si rendono nemmeno conto che la stanno dando sui piedi di tutti.

Quanto ancora dovremmo sentire la boria di questi ministri snocciolarci vecchie teorie fallimentari? Se è uno scherzo, è davvero il momento di dire che non fa più ridere.

 

 

 

Elisabetta Piccolotti

Responsabile Cultura, Giovani e Infanzia nella Segreteria Nazionale di Sinistra Italiana

 

Articolo tratto da https://www.huffingtonpost.it/

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