1.Gramsci e il suo primo sardismo.
Nelle sue prime esperienze politiche in Sardegna fu fortemente antipiemontese e
fu attratto da un Sardismo molto radicale e contiguo al separatismo, tanto da
far propria la parola d’ordine “A mare i continentali!” che in qualche modo
significava rivendicare l’indipendenza e la separazione della Sardegna
dall’Italia.
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2. Gramsci e il colonialismo.
Con la Sardegna e con le sue radici Gramsci mantenne sempre un rapporto molto stretto: certo per motivi affettivi - basta ricordare le sue
Lettere dal carcere - ma non solo. I ricordi dell’infanzia e della prima
giovinezza trascorsi soprattutto a Ghilarza prima e a Cagliari poi, durante il
periodo del Liceo al “Dettori” (1908-1911), rimasero sempre impressi in tutta
la sua esistenza e certo lo aiutarono a livello umano, fra l’altro forgiandolo
nel suo carattere forte e coriaceo, unico strumento per superare le immani
difficoltà che dovrà attraversare nella sua tormentata vita - si pensi in modo
particolare al carcere - ma diedero corpo anche alla sua complessa elaborazione
intellettuale e politica.
Di queste sofferenze egli parlerà a più riprese, fra
l’altro scrivendone il 16 Aprile 1919 in un articolo per l’edizione piemontese
dell’Avanti avente per titolo I dolori della Sardegna. In cui ricorderà quanto aveva affermato “nell’ultimo
congresso sardo tenuto a Roma, un generale sardo: che cioè nel cinquantennio
1860-1910 lo Stato italiano, nel quale hanno sempre predominato la borghesia e
la nobiltà piemontese, ha prelevato dai contadini e pastori sardi 500 milioni
di lire che ha regalato alla classe dirigente non sarda. Perché – aggiungeva -
è proibito ricordare, che nello Stato italiano, la Sardegna dei
contadini e dei pastori e degli artigiani è trattata peggio della colonia
eritrea in quanto lo stato <spende> per
l’Eritrea, mentre sfrutta la Sardegna, prelevandovi un tributo imperiale”.
E non si tratta di fantasie. Proprio nel Congresso cui fa
cenno Gramsci – che si tenne tra il 10 e il 15 Maggio del 1914, fu il primo
Congresso regionale sardo di Roma e non l’ultimo come sbagliando afferma
Gramsci che per di più lo colloca nel 1911– ci fu chi come il
deputato Carboni-Boy dimostrerà nella sua relazione che il gettito
fiscale prelevato in Sardegna era esorbitante non solo in relazione alle
risorse di cui poteva disporre l’Isola ma al reddito reale dei suoi abitanti.
“Il balzello” finiva così per “paralizzare ogni forza produttiva e ogni
risparmio”. In effetti per conseguenza di quel regime fiscale l’abitante della
Sardegna versava allo Stato complessivamente lire 3,53 di imposte e risultava
quindi “gravato come quasi e anche di più sosteneva il Carboni-Boy- di quello
di regioni ricchissime” quali il Piemonte (lire 3,78), il Lazio
(lire 3,56), la Toscana (lire 2,66)” .
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3. Gramsci, l’autonomia, il federalismo e Lussu. Gramsci pur abbandonando le iniziali e giovanili
posizioni “separatiste”, fin dai tempi de “L’Ordine Nuovo” nel 1919, si pone il
problema dell’Autonomia e del Federalismo anche se mancherà nei suoi scritti – ad
iniziare dai Quaderni – una tematizzazione del problema e dunque uno sviluppo
specifico, organico e compiuto della Questione istituzionale e dello stato
federale. Gramsci pensava a uno Stato federale con 4 repubbliche socialiste: Sardegna,
Sicilia, repubblica del Nord e del Sud.
Questa divisione susciterà il dissenso aperto di Emilio
Lussu che obietterà: “Repubblica sarda e
repubblica siciliana sta bene, ma il resto? Si può dividere l’Italia
continentale, nettamente, in due sole parti? E dove finisce il Nord e
incomincia il Sud? L’Italia centrale dovrebbe tutta andare al Nord sicché la
Repubblica del Nord diventerebbe, a un dipresso, ciò che è la Prussia nella
Confederazione germanica dove <chi tiene la Prussia tiene il Reich?>
Assolutamente no. O dovrebbe tutta andare col Sud? Inconcepibile... mi pare insomma che l’Italia peninsulare non
possa dividersi in due soli raggruppamenti di regioni così differenti, senza
viziare fin dalle basi il concetto fondamentale del federalismo”.
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4.
Gramsci e la Questione Meridionale. Nella
elaborazione gramsciana la “Questione meridionale” assume il valore di una vera
e propria questione nazionale, anzi la più
importante questione della storia italiana. Essa viene sviluppata segnatamente
nel saggio Alcuni temi della questione meridionale ma è anche presente in molti
appunti che si trovano nei Quaderni dal carcere. In Gramsci il “meridionalismo”
per intanto si trasferiva da elitari circoli intellettuali alle masse e si
ricomponeva così l’unità della teoria e della prassi, alla base di tutta la sua
riflessione, perché per l’eroe antifascista occorre certo conoscere il mondo ma
–marxisticamente- per cambiarlo e non solo per capirlo e interpretarlo.
In
secondo luogo – per così dire come premessa – Gramsci rifiuta con sdegno le
tesi delle cosiddette tare criminogene dei sardi e dei meridionali, sostenute allora persino in certi ambienti socialisti
impregnati di positivismo - è il caso di Enrico Ferri, direttore dell’Avanti,
organo del Partito socialista, dal 1904 al 1908 e deputato dello stesso partito
per molte legislature - secondo le quali le popolazioni meridionali erano
inferiori “per natura”. Questa ideologia pararazzistica aveva fatto breccia
anche tra le masse lavoratrici del Nord: in qualche modo ne è testimonianza
un’orrenda ma significativa espressione di Trampolini, massimo esponente del socialismo emiliano, secondo il
quale gli italiani si dividevano in “nordici” e “sudici”.
Ma anche quando non sfociano in queste espressioni al
limite del razzismo, le posizioni complessive dei Socialisti – e dunque non solo quelle
di Filippo Turati e dei riformisti – sono di totale sfiducia nelle possibilità
del proletariato meridionale: il loro
interesse infatti è rivolto esclusivamente alla classe operaia del Nord e alle
sue organizzazioni. Di qui l’abbandono sdegnato del Partito socialista da parte
di Gaetano Salvemini, che al PSI rimprovererà proprio di essere “nordista”,
ovvero di interessarsi solo delle oligarchie operaie delle industrie
settentrionali mentre rimane estraneo quando non ostile rispetto agli interessi
dei contadini meridionali.
Nell’affrontare
la Questione meridionale l’intellettuale di Ghilarza pone in prima istanza la
necessità di un’alleanza stabile e storica fra gli operai del Nord e i
contadini del sud e dunque manda gambe all’aria non solo il
positivismo razzistico di certo socialismo ma la sfiducia generale che si
nutriva dei confronti dei contadini. In questa posizione si sente fortissimo il
suo essere sardo, il legame con la sua terra, la conoscenza e la consapevolezza
dei mali dell’Isola; insieme l’elaborazione che fa della “Questione
meridionale” è strettamente legata alla strategia rivoluzionaria del Partito
comunista di allora.
Gramsci
nella sua elaborazione parte dalla considerazione che l’esistenza delle due
Italie - una sviluppata e l’altra sottosviluppata - erano il risultato
inevitabile del processo risorgimentale,
di come si era realizzata l’unità, senza la partecipazione e il coinvolgimento
delle masse contadine. Si era trattato in buona sostanza di una “rivoluzione
passiva” che aveva visto protagonista e vincente il cosiddetto blocco storico
conservatore, costituito dagli industriali del Nord alleati e complici con gli
agrari del Sud e con gli intellettuali che facevano da cerniera fra le masse
sfruttate e i grandi latifondisti meridionali.
5. Gramsci e la lingua sarda:
la lettera a Teresina (del 26 Marzo del 1927), (….) “Franco mi pare molto vispo
e intelligente: penso che parli già correttamente. In che lingua parla? Spero
che lo lascerete parlare in sardo e non gli darete dei dispiaceri a questo
proposito. E’ stato un errore, per me, non aver
lasciato che Edmea, da bambinetta, parlasse liberamente in sardo. Ciò ha
nociuto alla sua formazione intellettuale e ha messo una camicia di forza alla
sua fantasia. Non si deve fare questo errore coi tuoi bambini. Intanto
il sardo non è un dialetto, ma una lingua a sé, quantunque non abbia una grande letteratura, ed è bene che i bambini
imparino più lingue, se è possibile.
Poi, l’italiano, che voi gli insegnerete, sarà una lingua
povera, monca, fatta solo di quelle poche frasi e parole delle vostre
conversazioni con lui, puramente infantile; egli non avrà contatto con
l’ambiente generale e finirà con l’apprendere due gerghi e nessuna lingua: un
gergo italiano per la conversazione ufficiale con voi e un gergo sardo, appreso
a pezzi e bocconi, per parlare con gli altri bambini e con la gente che
incontra per la strada o in piazza.
Ti raccomando proprio di cuore, di non commettere un tale errore, e di lasciare
che i tuoi bambini succhino tutto il sardismo che vogliono e si sviluppino
spontaneamente nell’ambiente naturale in cui sono nati: ciò non sarà un
impaccio per il loro avvenire: tutt’altro.
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6. Gramsci e le tradizioni popolari.
Sì, le tradizioni popolari: “ ...le canzoni sarde che cantano per le strade i
discendenti di Pirisi Pirione di Bolotana … le gare poetiche… le feste di San
Costantino di Sedilo e di San Palmerio… le feste di Sant’Isidoro”. “Sai –
scrive in una lettera alla mamma il 3 Ottobre 1927 – che queste cose mi hanno
sempre interessato molto, perciò scrivimele e non pensare che sono sciocchezze
senza cabu nè coa”. In altre opere ribadirà che il folclore non deve essere
concepito come una bizzarria, una stranezza o un elemento pittoresco, ma come
una cosa che è molto seria e da prendere sul serio. Solo così – fra l’altro –
l’insegnamento sarà più efficiente e determinerà realmente una nuova cultura
nelle grandi masse popolari, cioè sparirà il distacco fra la cultura moderna e
la cultura popolare o folclore. In altre occasioni sottolinea che folclore
è ciò che è e “occorrerebbe studiarlo come una concezione del mondo e della
vita”, “riflesso della condizione di vita
culturale di un popolo“ in contrasto con la società ufficiale.
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7. Gramsci e il “folclorismo”.
Quello che invece Gramsci critica è il “folclorismo“, ovvero l’abbandono
all’isolamento storico e a una cultura arbitrariamente privata di ogni residua
mobilità, che definisce , malattia mortale di una cultura disattenta ai
significati progressivi della esperienza popolare e invece esaurita nel rispecchiamento
della vita passata, nella celebrazione di quei “valori” che disturbano meno la
morale degli strati dirigenti e rendono in questo senso più facili tutte le
“operazioni conservatrici e reazionarie” legando viepiù il folclore “alla
cultura della classe dominante”.
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8. Gramsci e le “pardulas”.
In altre lettere – per esempio in quelle del 16 Novembre del 1931 alla sorella
Teresina– chiede notizie su parole in sardo logudorese e campidanese e alla
madre – nella lettera del 26 Febbraio del 1927 – si figura di
rinnovare una volta libero e tornato al paese il “grandissimo pranzo con
culurzones e pardulas e zippulas e pippias de zuccuru e figu siccada”. In un’altra lettera del 27 Giugno 1927 le chiede di
mandargli “la predica di fra Antiogu a su populu de Masullas”.E al figlio Delio
che parlava russo e italiano e cantava canzoncine in francese avrebbe voluto
insegnare a cantare in sardo: “lassa su figu, puzzone”.
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9. Gramsci e l’utilizzo della Lingua sarda. Ma il “sardo“ di Gramsci non si ferma qui: alle pardulas
e ai bimborimbò delle feste paesane, pure importanti. Il suo rientrare
insistente nella lingua materna non è un fatto sentimentale. Va ben oltre.
Voglio ricordare per inciso che nei primi mesi di vita studentesca nella
Facoltà di Lettere a Torino i suoi interessi si rivolgono in modo particolare
agli studi di glottologia di qui le sue
ricerche sulla lingua sarda e il suo proposito di laurearsi, con il suo grande
maestro Matteo Bartoli, proprio in glottologia. O basti pensare che si fa
scrivere da due bolscevichi della “Sassari“ lo slogan della futura rivoluzione
in Sardegna: “Viva sa comune sarda de sos massajos, de sos minadores, de sos
pastores, de sos omines de traballu”
(Avanti ,edizione piemontese del 13 Luglio 1919). Conclusione “Tu Nino sei stato
molto più che un sardo, ma senza la Sardegna è impossibile capirti”: Lettera a
Gramsci di Eric Hobsbawm pubblicata sull’Unione sarda il 24 aprile 2007.
Hobsbawm è lo storico britannico, autore celebre de “Age of the Estremes”
tradotto in Italia e pubblicato dalla Rizzoli con il titolo di “Secolo breve”
Francesco Casula
Saggista, storico della letteratura
sarda
autore
del libro, tra gli altri, de “Carlo Felice e i tiranni sabaudi”
Articolo
tratto da: https://truncare.myblog.it/