giovedì 17 settembre 2020

Il vergognoso caso di Enzo Tortora


 

"Quando l'opinione pubblica appare divisa su un qualche clamoroso caso giudiziario - divisa in "innocentisti" e "colpevolisti" - in effetti la divisione non avviene sulla conoscenza degli elementi processuali a carico dell'imputato o a suo favore, ma per impressioni di simpatia o antipatia. Come uno scommettere su una partita di calcio o su una corsa di cavalli. Il caso Tortora è in questo senso esemplare: coloro che detestavano i programmi televisivi condotti da lui, desideravano fosse condannato; coloro che invece a quei programmi erano affezionati, lo volevano assolto." (Leonardo Sciascia)

(17 Settembre 1985) La Corte d’Assise di Napoli condanna Enzo Tortora a dieci anni di carcere. L’accusa di traffico di stupefacenti e associazione di stampo camorristico si basa sulle dichiarazioni dei pregiudicati Pandico, Giovanni Melluso, Pasquale Barra e di altri 8 imputati nel processo alla cosiddetta Nuova Camorra Organizzata. Il volto di “Portobello” sarà assolto con formula piena dalla Corte d'Appello di Napoli il 15 settembre del 1986.

Gli elementi "oggettivi", di fatto, si fondavano unicamente su un'agendina trovata nell'abitazione del camorrista, Giuseppe Puca, recante scritto a penna un nome che appariva essere, inizialmente, quello di Tortora, con a fianco un numero di telefono. Il nome, ad esito di una perizia calligrafica, risultò non essere quello del presentatore, bensì quello di un tale Tortona. Nemmeno il recapito telefonico risultò appartenere al presentatore, come la stessa agenda non apparteneva al camorrista.

Si stabilì, per giunta, che l'unico contatto avuto da Tortora con Giovanni Pandico fu a motivo di alcuni centrini provenienti dal carcere in cui era detenuto lo stesso Pandico, centrini che indirizzati al presentatore perché venissero venduti all'asta del programma Portobello. La redazione di Portobello smarrì i centrini e Tortora scrisse una lettera di scuse a Pandico. La vicenda si era poi conclusa, o così pareva, con un assegno di rimborso del valore di 800.000 lire. In Pandico, schizofrenico e paranoico, crebbero sentimenti di vendetta verso Tortora.

Riferisce lo storico della televisione Grasso che "le reti RAI mandarono in onda ininterrottamente e senza pietà le immagini del conduttore ammanettato". Tortora fu attaccato anche nell'ambiente giornalistico, furono pubblicate storie false per falsi scoop, ne fu posta sotto attacco l'immagine umana e professionale. La giornalista Camilla Cederna, che nel 1969 aveva difeso con decisione l'anarchico Pietro Valpreda ingiustamente accusato per la strage di Piazza Fontana, si pronunciò per la colpevolezza: «Mi pare che ci siano gli elementi per trovarlo colpevole: non si va ad ammanettare uno nel cuore della notte se non ci sono delle buone ragioni. Il personaggio non mi è mai piaciuto.» Al contrario, Tortora fu difeso, oltre che dai radicali, da Pippo Baudo, Piero Angela, Leonardo Sciascia e Massimo Fini. Piero Angela, con Giacomo Aschero, promosse una raccolta di firme pro -Tortora sul quotidiano la Repubblica, firmata da Eduardo De Filippo, Enzo Biagi, Giorgio Bocca, Lino Jannuzzi e Rossana Rossanda.

Tortora fu assolto definitivamente dalla Corte di Cassazione il 13 giugno 1987, a quattro anni dal suo arresto. Una trasmissione di Giuliano Ferrara, "Il testimone" del 1988, documentò per la prima volta la vicenda giudiziaria di Tortora, chiarendo l'infondatezza degli indizi che indussero gli inquirenti al suo arresto. Tortora tenne in questa trasmissione il suo ultimo intervento pubblico, in collegamento telefonico dal letto d'ospedale dove era ricoverato. Alessandro Criscuolo, presidente dell'Associazione Nazionale Magistrati, sostenne che il caso Tortora era nato da un sistema processuale figlio di "tempi bui e autoritari", dal vecchio rito inquisitorio. Tortora però gli rispose: «Io credo che voi siate impegnati in una difesa corporativa. Volevate difendere la vostra cattiva fede»

 

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